Bolero: recensione del film dal Milano Film Fest 2025

Il film di Anne Fontaine presentato in concorso alla prima edizione del Milano Film Fest.

Note musicali come parti di un ingranaggio, il racconto biografico di una passione ossessionante, un uomo inabile all’amore circondato dalle donne che ne hanno direzionato le partiture; alla prima edizione del Milano Film Fest, viene presentato in concorso, in anteprima nazionale, Boléro, film diretto da Anne Fontaine, realizzato a tre anni di distanza dal precedente Presidents. Liberamente ispirato alla monografia Maurice Ravel di Marcel Marnat (1986), il film racconta la genesi della composizione più celebre del musicista francese: il Boléro, nato su commissione della danzatrice russa Ida Rubinstein. Alla sceneggiatura, firmata dalla stessa regista assieme a Claire Barré, si affiancano l’eleganza della fotografia di Yves Angelo e le musiche originali di Bruno Coulais, capaci di dialogare in modo sottile con le partiture ravelliane. Il cast è guidato da un intenso Raphaël Personnaz nei panni del protagonista, affiancato da Jeanne Balibar, Doria Tillier ed Emmanuelle Devos, che danno corpo e voce a figure femminili cardine nella parabola creativa del compositore. La narrazione si muove fluidamente su piani temporali distinti, ripercorrendo tanto i prodromi giovanili quanto il lento e doloroso tramonto della mente di Ravel, costruendo un’opera biografica che tiene insieme impulso creativo e disgregazione interiore.

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Il feticismo e la ridondanza del suono

Bolero cinematographe.it

Il film si apre in un ambiente industriale: Ravel conduce Ida Rubinstein (Jeanne Balibar) all’interno di una fabbrica, affascinato dai suoni meccanici che interpreta come musica. L’incontro tra i due segna l’avvio della collaborazione che porterà alla nascita del Boléro. Da qui, la narrazione torna indietro nel tempo, al 1903, quando Ravel, giovane e fragile, viene escluso dal Prix de Rome per la quinta volta e subisce un infortunio dopo essersi lasciato distrarre da un motivo orientale udito per strada. Il racconto segue quindi i momenti salienti della sua carriera: l’amicizia con Marguerite Long (Emmanuelle Devos), il rapporto ambiguo e profondo con Misia Sert (Doria Tillier), l’esperienza americana dove entra in contatto con il jazz, e infine il ritiro creativo che precede la composizione definitiva del Boléro. La frustrazione per l’impossibilità di orchestrare Iberia, la pressione crescente da parte di Rubinstein e l’incombere della malattia lo conducono a un processo creativo tanto ossessivo quanto liberatorio. Il balletto, una volta terminato, diventa un successo mondiale, mentre Ravel, sempre più segnato da disturbi neurologici, si avvia verso una lenta e struggente dissoluzione.

Il cuore tematico dell’opera ruota attorno al rapporto morboso e feticista che Ravel intrattiene con la musica e con il suono stesso. Laddove si spezzi il silenzio, egli vi coglie musica: il cigolio di un ingranaggio, la vestizione di un guanto, il passo ritmato di un danzatore. Questo sguardo totalizzante e tormentato dà forma a una poetica musicale fatta di ripetizioni e ossessioni, incarnata simbolicamente nel Boléro, che si struttura su una singola cellula ritmica reiterata diciassette volte. Fontaine dipinge un artista posseduto dal suo genio, ma anche intrappolato in esso, e affida al femminile — presente in modo pervasivo — la funzione di medium e catalizzatore: Misia Sert, con cui Ravel intreccia un rapporto platonico saturo di tensione, diventa emblema della musa non posseduta ma fondativa; al suo fianco troviamo la madre, la domestica, Marguerite Long, la stessa Rubinstein. Tutte partecipano alla costruzione dell’identità di Ravel come musicista e uomo. Il tema della ridondanza diventa così doppio: ridondante è il Boléro, ma ridondante — ciclico, compulsivo — è anche il pensiero musicale che abita la mente del protagonista.

Bolero: valutazione e conclusione

Bolero Anne Fontaine cinematographe.it

Boléro è un film solido, affascinante per molti versi e meno convincente in altri. Il lavoro sul suono è curato con grande attenzione e costituisce uno dei punti di forza del film, così come la centralità data al rapporto tra Ravel e le figure femminili che lo hanno influenzato. Meno efficace appare invece la parte finale, scritta con una certa fretta e che non riesce a chiudere con la stessa intensità dell’incipit — visivamente e narrativamente tra i momenti più riusciti. La fotografia accompagna con eleganza la narrazione e la ricostruzione storica è puntuale, capace di restituire con coerenza l’aria dei salotti parigini tra musica, danza e nevrosi. Non si tratta di un film da dieci e lode, ma resta un’opera apprezzabile, anche per la dichiarata vicinanza emotiva della regista al soggetto trattato: Fontaine ha più volte raccontato come proprio il padre le avesse trasmesso l’amore per Ravel e per il Boléro, stimolando una riflessione personale sulla nascita dell’iconico brano. Il film riesce a farci intravedere cosa si nasconde dietro un capolavoro, tra desiderio, angoscia e quella misteriosa alchimia che trasforma il tormento in arte.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 10
Emozione - 2.5

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