Behind the Fence: recensione del documentario di Tamara Abu Laban
Behind the Fence è un respiro a pieni polmoni, un fiore che sboccia tra le macerie, anche quando non è ancora giunta la primavera.
Resistenza, segregazione e speranza si intrecciano in Behind the Fence, il film documentario della palestinese Tamara Abu Laban, proposto in occasione della X edizione di Documentaria. La regista, nata e cresciuta nel campo profughi di Dheisheh, vicino a Betlemme, mette insieme i pezzi di una vita carica di difficoltà, il disagio di non poter essere cittadini (ma solo residenti), di non poter avere una vera casa né l’assoluta libertà di muoversi, lavorare, studiare.
Il suo vissuto, così complicato e lontano da ciò che potremmo definire “una vita serena”, diviene inchiostro col quale scrivere una storia che profuma di fiducia e bellezza, arrivando dritta al cuore, allo stomaco e agli occhi, urlando a squarciagola il miracolo di essere vivi, nonostante tutto e tutti.
Il film prende come punto di partenza la Prima Intifada (fine anni ’80), ripercorrendo il modo in cui gli abitanti del campo profughi di Dheisheh vivono l’occupazione israeliana e le motivazioni che portano alle rivolte, alla successiva costruzione dei muri, ai coprifuoco infiniti e alle restrizioni. 
Behind the Fence si addentra nei meccanismi di una resistenza quotidiana, organizzata con strumenti rudimentali, sfiancata dal fatto di essere in minoranza rispetto all’esercito israeliano, ma che ha dalla propria parte un senso di comunità che nel film diviene motore di un concetto più grande e di un’insegnamento che perfora i confini del non detto e del non visto. 
Behind the fence, letteralmente “dietro la recinzione”

Quella recinzione che campeggia nel titolo del documentario si fa metafora di un muro fisico e mentale. Nel film gli intervistati esplorano questo simbolo, la sua evoluzione da rete a muro, la sensazione di essere occupati e controllati non solo nello spazio fisico ma anche in quello mentale, nell’idea stessa di aprire la finestra della propria casa e non poter guardare il cielo. Ecco allora che la volontà di abbattere e superare quel muro si carica di un significato sociale e personale, facendosi portavoce di una spersonalizzazione: i palestinesi del campo di Dheisheh devono essere comunità per essere, ovvero per esistere, poiché nell’isolamento sparirebbero come persone per essere solo delle pedine.
Assecondando questa grammatica cinematografica, la macchina da presa di Tamara Abu Laban si focalizza sui graffiti, sulle scritte, sulle strade massacrate, sui volti coraggiosi di chi lotta e nel mentre si innamora, si sposa, mette su famiglia. 
Il suo documentario è una luce che fende le macerie e si introduce dirompente nella grande Storia, quella che ancora oggi si evolve e divide, quella fatta di proiettili, persone uccise, diritti negati. C’è un filo rosso di vita, però, che cuce tutte le ferite, anche quelle impossibili da rimarginare, ed è l’umanità che nonostante tutto resiste. “Nessuno è mai morto di fame”, dice una delle intervistate in Behind the Fence, perché chi aveva la possibilità di cucinare lo faceva per tutti, le porte venivano lasciate aperte, per consentire a chiunque di trovarvi rifugio, nei muri interni delle case vi erano passaggi segreti atti a permettere lo spostamento durante il coprifuoco e se qualcuno era in pericolo tutti accorrevano in suo soccorso.
Behind the Fence: valutazione e conclusione
In poco meno di un’ora, con uno sguardo così intimo quanto sobrio, Abu Laban ci porta nel mondo che le è appartenuto, intersecando le voci dei protagonisti e le immagini del reale (recuperate da servizi giornalistici e altri materiali d’archivio, difficilissimi da reperire) con delle illustrazioni stilizzate che ammortizzano le mancanze di materiale e allo stesso tempo alleggeriscono la narrazione. Behind the Fence a raccontare la storia.
Behind the Fence è un respiro a pieni polmoni, un fiore che sboccia tra le macerie, anche quando non è ancora giunta la primavera. Una storia fatta di resistenza, perdita, memoria collettiva e orgoglio, da vedere non solo per comprendere un pezzetto dello spirito palestinese, ma anche per intendere con intimità e senza retorica il vero significato della resilienza.
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