Roma FF17 – Amsterdam: recensione del film di David O. Russell

La recensione di Amsterdam, il film di David O. Russell al cinema dal 27 ottobre 2022 è un pasticcio superbo. E se, nel buio della sala vi capiterà di sentirvi frastornati e disorientati, non temete, alla fine la bellezza vi salverà!

Amsterdam, il film di David O. Russell presentato alla 17ma edizione della Festa del Cinema di Roma è, innanzitutto, un sogno, una meta da raggiungere, un ideale.
Ispirata a fatti realmente accaduti, questa commedia un po’ grottesca si muove sullo sfondo della Grande Guerra cicatrizzando il dolore e la perdita nei corpi massacrati dei reduci; volti che somigliano a caricature, cure che sottolineano un vissuto lacerante il quale, staccando di dosso ai malcapitati arti e pezzi di pelle, li ha automaticamente inseriti in una casta di inetti post conflitto, una specie di sub-società ignorata dal resto del mondo, da chi non ha dovuto affrontare la trincea. È la storia della guerra, la storia di tutte le guerre e, nel dettaglio, la vicenda del dottor Burt Berendsen (Christian Bale), dell’avvocato Harold Woodsman (John David Washington) e dell’infermiera Valerie Voze (Margot Robbie). Il loro rapporto ricalca un po’ i sognatori di Bertolucci e lascia che a macchiarne i contorni siano i patti e gli scontri personali, come a rimarcare l’idea di una formazione conflittuale che oltrepassa il campo di battaglia per arenarsi nella vita dei singoli.

Amsterdam: il film di David O. Russell ispirato a una storia vera

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Così facendo Amsterdam tende fin dal principio a ironizzare sulla considerazione delle persone di colore e sulla situazione politica di quel tempo: una scelta ragionevole, dal momento che si ispira a un tentativo di golpe realmente avvenuto e passato alla storia come Business Plot. Esso si agita sullo sfondo, intrecciando una miriade di sottotrame che, come i fili di una matassa, si aggrovigliano fino a confondere lo spettatore.

È la storia del conflitto mondiale – e quindi della collettività – che fa da cornice a una storia d’amicizia e, poi, a una storia d’amore, ma è anche una storia di tradimenti, che poi diviene un giallo, dentro un musical, dentro una spy story. Insomma, si, stiamo parlando sempre dello stesso film in cui la confusione regna sovrana: Amsterdam vorrebbe essere tante cose e con un po’ di ordine forse sarebbe anche in grado di esserlo, ma pecca un po’ di saccenteria, eregge montagne che crollano in valanghe e il risultato narrativo è un’esplosione: ci sentiamo teletrasportati da uno scenario all’altro, senza mai davvero capire dove stiamo andando. Un disorientamento che potrebbe turbare lo spettatore, farlo perdere letteralmente per strada, oppure coinvolgerlo in un viaggio (di uno di quelli che si farebbero se si assumessero certe “medicine sperimentali” del dottor Berendsen!).

La regia di David O. Russell si inserisce di dovere in questa fiumana di meraviglia, in inquadrature che ci fanno piroettare sulla pista da ballo, guardare la ferocia con incanto, osservare altresì le cose da svariate prospettive. E ci sono poi le citazioni, come la strizzata d’occhio a François Truffaut sul finale. E le sospensioni, le pause obbligate, che ci fanno prendere il respiro, aprendo parentesi che non verranno di fatto mai davvero chiuse.

Chi osserva con attenzione potrebbe anche rischiare di scovare una retta via. Nell’uno o nell’altro caso, David O. Russell punta tutto su Amsterdam: questa città oltrepassa i suoi confini fisici per farsi teatro della vita desiderata, goduta, vissuta fino in fondo. È qui infatti che il trio protagonista solidifica la propria amicizia, in un patto per la vita che non a caso si spezza nel momento esatto in cui Burt sceglie di tornare in patria. Se la capitale dei Paesi Bassi è la bolla, l’illusione, l’unico luogo al mondo in cui essere liberi e felici e in cui è possibile stare insieme, l’America è la vita dura, quella fatta di doveri, quella in cui crescere e realizzare concretamente i propri sogni.

Il cast è perfetto, ma sembra implodere sotto i colpi di una sceneggiatura che osa troppo

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(L-R): Anya Taylor-Joy as Libby, Rami Malek as Tom, Christian Bale as Burt, Robert De Niro as Gil, and Margot Robbie as Valerie in 20th Century Studios’ AMSTERDAM. Photo by Merie Weismiller Wallace; SMPSP. © 2022 20th Century Studios. All Rights Reserved.

Dallo sguardo lucidamente folle di Valery sul mondo viene fuori la voce della coscienza, della verità. La voce di chi si diletta a poetare sull’esistenza, scorgendo nel fanciullino (per dirla con Pascoli) il vero io dell’essere umano. Va da sé che Margot Robbie si lasci amare, come tutto il cast, che però non ha modo di brillare come dovrebbe. La lista dei grandi nomi è infatti lunghissima – Anya Taylor-Joy, Rami Malek, Robert De Niro, Michael Shannon, Chris Rock, Zoe Saldana, Timothy Olyphant, Andrea Riseborough, Mike Myers, Alessandro Nivola, Matthias Schoenaerts, Leland Orser e Taylor Swift – e la costruzione della pellicola non sa incastonarli doverosamente, complici i dialoghi un po’ troppo ingessati, frasi che sembrano essere uscite da un libro, poste sulle labbra degli interpreti con tutta la loro prorompente profondità, ma forse poco adatti a incastrarsi vicendevolmente.

Il bello c’è, lo si strappa dalle conversazioni che non potrebbero essere reali, ma che importa? La realtà è fatta di guerra, di sangue, di morte. La realtà è qualcosa di ripugnante e brutale, perché l’uomo non impara mai dai propri errori e così Amsterdam tenta di fare lo stesso esercizio di Valery: rintracciare la bellezza in ogni occasione e occultare con frastuono e gioia la disperazione.
Una missione che il lungometraggio porta a compimento, sostenuto dalla colonna sonora di Daniel Pemberton e dall’inserimento di alcune canzoni che fungono da ossimoro all’interno di situazioni tutt’altro che felici. Basti pensare al momento in cui Burt decide di chiudere definitivamente la relazione con la moglie, bilanciato dall’ascolto di un brano ispanico o, ancora, alla scena iniziale, in cui il rumore dei soldati in marcia si trasforma in una strombettante melodia.

Amsterdam è arte futurista e surreale

C’è poi l’arte, tantissima, che è la nota adorabile di Amsterdam. Attirati dentro l’obiettivo del direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, risplendono i costumi di Albert Wolsky e J.R. Hawbaker, le scenografie di Patricia Cuccia ed Erin Fite e chiaramente il trucco di Jason Collins, che provvede letteralmente a deformare i volti di chi è sopravvissuto alla Grande Guerra, rendendoli speciali e dando altresì valore alla missione del dottor Burt Berendsen (è come se il personaggio di Bale mettesse in pratica la tecnica giapponese del kintsugi, ma non sui vasi, bensì sulle persone).
Tutto è scintillante, perfetto, arte da museo ridotta in puzzle e dispersa lungo le oltre due ore di durata del film. Ad ammaliare, però, è soprattutto l’arte affidata alla mano di Valery, perché nelle sue opere si reperiscono gli scarti, ciò che il malessere ha vomitato e ciò che ha lasciato indietro, letteralmente occultato da vita nuova e rigogliosa: dalle lastre dei loro toraci fino ai dipinti in cui le mancanze fisiche vengono sostituite da fiori e frutti. Sono opere surreali, futuriste, che rompono gli schermi (e se ci pensate, siamo negli anni ’30 del XX secolo e certi movimenti già dominavano la scena artistica). Interessanti le immagini che scorrono insieme ai titoli di coda, in cui i protagonisti della pellicola vengono ritratti seguendo le linee dello yin e dello yang: estensione estrema di un messaggio di fratellanza e pace.

Concludendo, Amsterdam è un pasticcio superbo. E se, nel buio della sala vi capiterà di sentirvi frastornati e disorientati, non temete, alla fine la bellezza vi salverà!

Il film è al cinema dal 27 ottobre 2022 con 20th Century Studios.