Venezia 80 – Amor: recensione del documentario di Virginia Eleuteri Serpieri

Un sentito documentario sul valore della memoria e sulla capacità del cinema di riavvolgere il tempo.

Virginia Eleuteri Serpieri partecipa all’ottantesima edizione del Festival del Cinema di Venezia con Amor, un’opera ibrida, che tiene insieme il documentario, il cinema poetico, la videoarte e l’autoanalisi.


Il pretesto del film è la morte della madre della regista, Teresa. La donna si è uccisa nel 1998, lanciandosi nel Tevere. La Serpieri però non indaga tanto sulle ragioni di un simile gesto, quanto sui meccanismi della memoria. Inscena infatti una ricerca, un viaggio in macchina lungo le strade di Roma, che diventa un viaggio indietro nel tempo, fra le immagini e i ricordi della madre. La città capitolina, con le sue rovine e il Tevere che l’attraversa, diventano un correlativo oggettivo delle rovine/ricordi che una vita, spenta troppo presto, si è lasciata dietro. Si tratta allora di capire se davvero non rimane altro oltre le macerie o se, forse, la memoria è in grado di funzionare da chiave d’accesso per una dimensione diversa, una dimensione affettiva dove Teresa è rimasta giovane e può finalmente vivere prendendosi cura degli altri, come avrebbe voluto sempre fare. Una dimensione dove, soprattutto, qualcuno si possa prendere cura di lei, nella maniera in cui, apparentemente, i familiari non riuscirono a fare. Questa dimensione è il pianeta Amor – cioè la parola Roma letta al contrario, una città ideale in cui il tempo perduto si riavvolge.

Amor: il cinema come memoria

Amor Cinematographe.it

Le traiettorie visive utilizzate dall’autrice per raccontare le vicende della propria coscienza e dare un nuovo significato ai ricordi sono duplici. Vi sono le linee di movimento in profondità e in superficie, che seguono la donna in macchina, delineando la topografia di una Roma sospesa fra il mito dell’antichità e un presente onirico. In secondo luogo, in Amor vi sono i quadri fissi, in cui viene rappresentata la madre eternamente giovane, interpretata da Odetta Tunyla. Qui La Serpieri utilizza varie forme di manipolazione dell’immagine, così da restituire un’idea della realtà, fluida eppure eterna, come sono le acque del Tevere. Sovrapposizioni, sovrimpressioni, giochi cromatici e utilizzo dell’effetto pellicola otto millimetri, per i segmenti ambientati su Amor, sono tutti artifici che concorrono a stabilire una correlazione fra la memoria e il mezzo filmico. Il cinema diventa, infatti, esso stesso un fiume, un movimento continuo di forme fluide, che lascia emergere immagini/rovine di vite vissute – le foto di Teresa e di Virginia, Virginia in macchina –, di vite ipotetiche – Teresa su Amor – e di vite riplasmate in identità ideali – Teresa/Tunyla.

Amor Cinematographe.it

In Amor, Serpieri crea un flusso che abbatte i filtri della distinzione fra realtà e immaginazione, per restituire una più alta forma di verità emotiva, attraverso un processo dialettico che indaga sull’ontologia dell’immagine. Cos’è un’immagine, sembra chiedersi la regista. Una traccia di vita, una rielaborazione percettiva della realtà, un modo per prolungare un’esistenza ormai conclusa, un atto di amore puro? Queste ipotesi sulla natura della riproduzione fotografica del reale, che vengono alla mente durante la visione di Amor, sono tutte in qualche maniera valide. Eppure, forse, l’ipotesi più interessante emerge dall’analisi del legame che la Serpieri traccia fra le immagini del proprio vissuto personale a quelle della vita materica dell’intera città. Le immagini fotografiche, filmiche o video, sono paragonabili alle rovine architettoniche di Roma. Entrambe hanno la funzione di essere le fondamenta su cui poggia l’esistenza stessa di un’identità, quella individuale o quella collettiva del luogo entro cui le singole individualità si esplicano. Per questo motivo, entrambe sono accomunate al valore cangiante del fluire dell’acqua: le immagini e le rovine non sono sempre uguali a sé stesse, ma cambiano nel tempo, o meglio il loro valore e significato cambia nel tempo, in funzione dell’evoluzione delle soggettività che le esperiscono. Non sono semplici tracce di una vita passata, ma rappresentano la possibilità di quella vita di attualizzarsi nel presente, ponendo le basi per una continuazione del flusso vitale nel futuro. Questo è il pianeta Amor, il pianeta della cura. Si tratta del processo creativo della mente umana, che mosso dall’amore, inteso come forza che si oppone alla tensione all’immobilità della morte, spinge l’uomo a rielaborare il proprio passato, così da ricreare costantemente la narrazione della propria esistenza e di quella dei propri cari, attraverso le immagini della memoria. Amor è la città del Cinema.

Valutazione e conclusione

Amor Cinematographe.it

La messa in scena dell’autrice è rigorosa e precisa. Sa quando usare effetti visivi debitori delle pratiche della videoarte e quando affidarsi a tableaux vivants che, tenendo insieme soggetti umani moderni e rovine antiche, rimandano a certo cinema pasoliniano. La fotografia variegata, ma sempre pulita e nitida, valorizza sia la luce naturale della Città Eterna, che le possibilità dell’illuminazione artificiale, soprattutto nei ritratti di Teresa/Tunyla. Il montaggio si adatta al tono contemplativo e poetico dell’opera, offrendo le immagini, allo spettatore, per tutto il tempo necessario a coglierne ogni dettaglio e, soprattutto, a coglierne i sottili nessi simbolico-affettivi che portano da un’immagine a un’altra o, a volte, che trasmutano direttamente un’immagine nella successiva. La scrittura è intimista e rappresenta una forma di autoanalisi, che, ancorché improntata a una riflessione generale interessante, potrebbe risultare in alcuni punti sin troppo personale. In definitiva Amor è un film ambizioso, in grado di offrire allo spettatore un’esperienza cinematografica molto interessante, a patto che quest’ultimo abbia voglia di lasciarsi trasportare dallo stream of consciousness visivo dell’autrice.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 4
Sonoro - 3
Emozione - 3

3.2