Alla Vita: recensione del film con Riccardo Scamarcio

Alla Vita, regia di Stéphane Freiss, con Riccardo Scamarcio e Lou de Laâge, racconta la storia di un uomo e una donna che cercano di essere liberi in un mondo che li opprime.

C’è molta dignità e anche delicatezza nel modo con cui Alla Vita, opera prima di Stéphane Freiss con Riccardo Scamarcio e Lou de Laâge, fotografa e accompagna la crisi e il bisogno di pace dei suoi protagonisti. Il film è prodotto da BA.BE Productions e Indiana Production, con la collaborazione di Vision Distribution, Fanfarons Films e Sky. Esce nelle sale italiane il 16 giugno 2022. La storia è quella dell’incontro tra un uomo e una donna che parlano lingue diverse, hanno caratteri diversi, diverse motivazioni e diversi modi di sentirsi (e di mettersi, soprattutto nel caso di lui) in trappola. Ma in trappola, non solo dal punto di vista esistenziale, ci sono finiti entrambi e sarà ora di liberarsene. Insieme?

Alla Vita: un uomo, una donna e un insopprimibile desiderio di indipendenza

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Elio ed Esther si incontrano d’estate, in uno splendido scorcio di campagna da qualche parte nel Sud Italia. La famiglia Zelnik è un clan di ebrei ultraortodossi originari di Aix-Le-Bains, in Francia. Ogni anno, con la bella stagione, la famiglia si sposta in blocco dalle nostre parti perché è il momento di fare incetta di cedri, che nella tradizione ebraica sono frutti importantissimi, a uso e consumo di specifiche celebrazioni e da cogliere solo dopo un attento e scrupoloso esame. Esther (Lou de Laâge) ha poco più di vent’anni ma sulle spalle una stanchezza antica; non ne può più delle regole, delle costrizioni, dei divieti di una famiglia e una religione entrambe troppo ortodosse per i suoi gusti. La sua è un’esistenza a scarto ridotto, la vita sotto anestesia.

Elio (Riccardo Scamarcio) cura la tenuta che ospita i soggiorni estivi della famiglia Zelnik. In realtà nasce gallerista a Roma con moglie, figli e un’attività certo più vicina al suo cuore e ai suoi interessi. Solo che il padre muore all’improvviso e così Elio si ritrova sulla via di casa senza moglie, senza figli, senza il lavoro della sua vita, di nuovo e non proprio con il massimo dell’entusiasmo. Lo aiuta Nicola Rignanese. Elio è infelice e la sua crisi assomiglia molto da vicino a quella di Esther. Alla Vita avvicina i due personaggi e ne circoscrive gli scambi nel perimetro di un legame fuori dagli schemi. Accennato, appena suggerito, costruito su un muro di silenzi, di poco detto e molto non detto.

Mani che appena si sfiorano; conta l’evoluzione intima dei protagonisti e il modo con cui viene raccontata. Con pudore e sensibilità ammirevole Alla Vita non segue la via del cinema urlato, della denuncia superficiale. La geometria del racconto è l’incastro studiato di due crisi esistenziali particolari, due solitudini che insieme si somigliano e sono radicalmente diverse. Elio ed Esther sono così vicini alla terra che basterebbe loro sporgersi un pochino per raccoglierne i frutti ed essere veramente felici, non ci riescono perché ci sono così tante regole che li separano dalla possibilità di sperimentare la vita in condizione di piena autenticità. Ma se l’ortodossia che soffoca l’indipendenza di Esther è fuori di lei, decisa prima della sua nascita da altri, prima di lei e sopra di lei, quella che opprime Elio è per lo più auto imposta. Elio in gabbia ci si è messo da solo. Questo il gioco di specchi del film.

Un tema poco affrontato al cinema, un’impronta delicata e dignitosa. La regia poteva però osare di più

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Quanti film italiani affrontino, di lato o di petto, la questione della vita nelle comunità di ebrei ortodossi, non c’è neanche bisogno di perder tempo a fare i conti. Stéphane Freiss, attore di cinema e teatro prestato alla regia, sceglie di raccontare per il suo esordio un mondo poco frequentato, ha senso delle proporzioni e calibra i rapporti tra i due protagonisti in una condizione di sostanziale parità. Quest’uomo e questa donna, ciascuno con la sua fetta di crisi uguale e insieme diversa, hanno lo stesso peso, la stessa importanza, sono restituiti al pubblico con uguale dignità.

Dignità, delicatezza e decoro sono i contrassegni emotivi di un dramma intimo che non cerca vie e soluzioni solo superficalmente d’effetto. Riccardo Scamarcio e Lou de Laâge mostrano di trovarsi a loro agio nei toni trattenuti di Alla Vita. Che ha una buona costruzione e parte con un mistero, il mistero di una donna che cerca di affrancarsi da un mondo di regole vuote che fatica a capire e accettare, per poi chiarire le cose man mano che procede.

Alla Vita usa la terra come metafora di tutto il resto. La terra è florida e regala frutti in abbondanza, ma l’uomo non riesce a goderne perché se ne allontana costruendosi attorno una ragnatela di regole. Elio ed Esther non si ribellano perché hanno perso la fede. Credono nella vita, solo che vogliono credere in modo diverso, più libero e spontaneo. E indipendente. Il film accompagna il loro tentativo con una buona scrittura e una dignità d’approccio veramente apprezzabili. Peccato solo che la messa in scena, nella sua lodevole sobrietà, manchi di quel guizzo di freschezza e di originalità, in nessun modo ruffiana o urlata, che avrebbe permesso a questo incoraggiante esordio di raggiungere picchi davvero notevoli.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 2.5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 3

2.9