Albatross: recensione del film di Giulio Base

La vera storia del giornalista triestino Almerigo Grilz, che negli anni '80 fondò l'agenzia stampa “Albatross”

Il cinema che racconta la necessità di raccontare, il documento che prova a non schierarsi, a dare trasparenza alla verità, un personaggio dimenticato dalla storia ma rivitalizzato dalla pellicola. Albatross, nuovo lavoro di Giulio Base, è un film che non cerca il clamore ma il confronto, non l’ideologia ma la memoria. In oltre 150 sale cinematografiche a partire dal 3 luglio, distribuito da Eagle Pictures, il biopic prende il titolo dall’agenzia fondata da Almerigo Grilz – giornalista, videoreporter e primo cronista italiano ucciso in un conflitto postbellico – e lo trasforma in emblema di una libertà d’inchiesta più necessaria che mai. Giulio Base, autore dalla filmografia stratificata e pensata, si confronta qui con un soggetto spinoso e potenzialmente divisivo, ma lo fa con la consapevolezza di chi attraversa la materia senza volerla possedere. Alla sceneggiatura – firmata dallo stesso regista – si affiancano la fotografia di Giuseppe Riccobene, dai toni smorzatamente documentaristici, e le musiche di Flavio Ibba, misurate, sobrie, capaci di accompagnare senza dirigere lo spettatore. A dare volto a Grilz è Francesco Centorame, in una prova fisica, asciutta, contenuta, affiancato da un Giancarlo Giannini maturo e riflessivo, nel ruolo di Vito Ferrari da anziano. Il resto del cast, composto da Michele Favaro, Linda Pani, Tommaso Santini e lo stesso Base, contribuisce a tenere alta la tensione narrativa senza eccessi drammatici.

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Oltre la militanza: la storia, il giornalismo, il dubbio

Albatross cinematographe.it

Albatross racconta la storia di un’amicizia e di una frattura. Nella Trieste del 1977, durante una manifestazione, due giovani di opposte fazioni – Grilz e Ferrari – si scontrano e poi si trovano a fuggire insieme. L’uno finisce in carcere, l’altro no. Da lì inizia una traiettoria di crescita e di confronto che porterà Grilz ad allontanarsi dal passato politico e ad abbracciare il giornalismo di frontiera, fondando, insieme ad altri due colleghi, l’agenzia Albatross. Dalla Cambogia al Libano, passando per l’Afghanistan e l’Angola, il film segue il protagonista nella sua trasformazione in reporter di guerra, fino alla tragica fine in Mozambico, nel 1987. Un viaggio di immagini e di convinzioni, in cui il pubblico è chiamato a osservare più che a giudicare, in cui la scelta narrativa è quella del rispetto, anche quando i fatti disturbano o dividono.

Ma Albatross è anche un film che interroga il presente: su cosa significhi fare giornalismo oggi, su quanto le ideologie abbiano plasmato la memoria collettiva, su come il dialogo – se cercato – possa attraversare anche i conflitti più aspri. La politica qui non è bandiera ma sfondo, campo di battaglia e riflesso delle trasformazioni individuali. Giulio Base costruisce un’opera sulla complessità e sull’ascolto, dove il biopic diventa pretesto per un ragionamento più ampio sul potere dell’immagine, sulla responsabilità di chi documenta e sulla sottile linea che separa la testimonianza dall’attivismo. Un film sul giornalismo, certo, ma anche sulla solitudine di chi prova a guardare in faccia la realtà quando tutto intorno diventa rumore.

Albatross: valutazione e conclusione

Albatross Giulio Base cinematographe.it

Con Albatross, Giulio Base compie un passo inedito nella propria carriera: abbandona momentaneamente il film da festival, di nicchia, per confrontarsi con una narrazione più lineare, ma non per questo meno densa. Il risultato è un’opera sobria e coraggiosa, che sceglie di raccontare un pezzo controverso della storia italiana con attenzione e misura. C’è un’evidente cura nella regia, che si fa asciutta, quasi da reportage, in parallelo con la figura del protagonista. Un parallelismo che emerge anche a livello autoriale: Base si comporta da cronista più che da autore onnisciente, e nel farlo restituisce dignità e ambiguità al suo soggetto. La macchina da presa si avvicina, ma non giudica; accompagna, ma non impone. E proprio in questa scelta risiede il valore più grande del film. Albatross si inserisce con naturalezza in quel filone di cinema civile che non cerca risposte ma pone domande, che non si nasconde dietro la retorica ma prova ad attraversarla. In un’epoca di polarizzazione e disinformazione, il film ricorda che il cinema, come il giornalismo, può ancora essere uno strumento di ricerca, di memoria e, forse, di riconciliazione.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3.5
Emozione - 3

3.3