A House of Dynamite: recensione del film di Kathryn Bigelow, da Venezia 82
A House of Dynamite è un thriller avvincente, un dramma appassionante e un'introspezione che, nel suo trascinare lo spettatore, è straziante.
A otto anni di distanza da Detroit, a tredici da Zero Dark Thirty e a diciassette da quel capolavoro che è stato The Hurt Locker, Kathryn Bigelow torna al cinema con un altro potentissimo film, A House of Dynamite, presentato in concorso all’82ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Con un cast stellare dove spiccano i nomi di Rebecca Ferguson, Idris Elba e Jared Harris, insieme a moltissimi altri, A House of Dynamite esplora il pericolo delle armi nucleari, possedute ormai da diversi Paesi del mondo. Ma in particolare come questo non venga preso abbastanza sul serio, essendo un qualcosa che esiste, è entrato nel concetto di normale attualità, ma di cui non si parla abbastanza. Il film parte infatti dall’avvistamento di un missile lanciato contro gli Stati Uniti. Il tempo per capire chi vi sia dietro e come reagire è pochissimo e, in qualsiasi caso, evitare il disastro sembra impossibile.
Le case piene di dinamite di A House of Dynamite sono le case di tutti

È una giornata come tante, quella che stanno per affrontare i personaggi di A House of Dynamite, o almeno così appare. Il comandante della situation room della Casa Bianca, il Capo del Dipartimento della Difesa e tutti i membri del centro di gestione delle emergenze militari, coloro che da luoghi remoti operano per la sicurezza di una delle più grandi potenze mondiali. Tutti si preparano ad un’altra giornata di lavoro, passando attraverso metal detector e controlli, lasciando problemi familiari a casa, spegnendo o lasciando i telefoni fuori da quelle stanze dove nessuna distrazione è consentita. Un missile dalla provenienza ignota compare sugli schermi, non è subito chiaro se si tratti di un missile nucleare, né dove sia diretto, ma la traiettoria indica poi gli Stati Uniti, poi Chicago e i minuti all’impatto non sono che diciannove. Diciannove minuti che Kathryn Bigelow racchiude in 112 minuti di tensione, angoscia e puro terrore. Il thriller della regista e sceneggiatrice statunitense è compresso, fitto e concitato.
Un ritmo incalzante si sussegue, con esagitata accelerazione nelle tre parti che compongono il film. Tre mondi, tre punti di vista, tre prospettive. Un obiettivo comune, un’oppressa inquietudine che è sofferta. Dolorosa in ciò che non si può rivelare e disobbediente nella salvezza che si vuole assegnare. Rebecca Ferguson, Idris Elba, Jared Harris e Tracy Letts interpretano i capostipiti degli organi che vedono la sicurezza del Paese e del loro operato quotidiano vacillare, evolvendo in una totale instabilità. Un connubio di performance eccellenti, una più convincente dell’altra, alle quali si aggiungono le interpretazioni intense, travagliate e dolenti di Gabriel Basso, Johan Hauer-King, Jason Clarke, Greta Lee, Moses Ingram ed Anthony Ramos. Tutti, nessuno escluso, protagonisti di una recitazione che è ineccepibile. Sguardi tormentati che subiscono e patiscono tutto il peso di ciò che sanno e non possono dire, di ciò che temono mentre i minuti diminuiscono sempre di più.
La luce che Kathryn Bigelow porta nel buio universo delle armi di distruzione di massa

Nel mondo delle armi nucleari Kathryn Bigelow si inserisce nel momento storico più opportuno e, puntuale, in rischi che sono reali, imminenti, probabili. La regia di Bigelow è come sempre strepitosa, e da The Hurt Locker a Zero Dark Thirthy fino a Detroit, non si avevano dubbi. Torna la staticità dei travagli interni, di quei pochi minuti dove fermi, chiusi in una stanza, si prendono decisioni dove la stima delle vittime supera i dieci milioni. Dieci milioni di cittadini ignari, che continuano a vivere le loro vite, come se nulla fosse. Cosa fare? Il missile viene mancato due volte e se contrattaccare è un suicidio, non fare nulla è una resa. Come viene detto nel film “la scelta è tra resa e suicidio“. Una scelta che viene affidata al Presidente degli Stati Uniti, un Idris Elba che da figura rassicurante e decisionale, spera di trovare nelle parole e nello sguardo di chi è mero spettatore e trasportare di manuali sui rischi nucleari, la soluzione che non ha. La decisione che non riesce a prendere.
Un montaggio frutto di una struttura che è esasperata, affannosa, quasi nevrotica, che nel suo stato di incontrollata fretta cerca di fermare un countdown iniziato quando era già troppo tardi. Fisica, emotiva e psicologica è la convulsione di personaggi portati al limite: delle loro capacità, del loro rispetto delle regole e nei loro tendini e muscoli che devono essere sempre saldi. La sicurezza degli Stati Uniti, prima incerte sulle zone, poi attendibile sulla più grande metropoli dell’Illinois. Dove vivono figli e genitori di chi di quell’impatto ne è stato a conoscenza diciannove minuti prima. A House of Dynamite è esplosivo e sconcertante, è l’intuizione che, traumatizzante, diventa realizzazione è che questa volta la difesa ha fallito. Questa volta non c’è modo di arginare l’incombente catastrofe che ha anche il sapore dolceamaro di un presagio al quale non si è data la giusta valenza. Il film di Kathryn Bigelow è un film lucido, acuto e impressionante, una costante e tenace corsa contro il tempo che si fa ombra e apparizione di tutti coloro coinvolti in una sicurezza di cui sentono di non essere stati all’altezza.
A House of Dynamite: valutazione e conclusione

Mentre la provenienza del missile continua ad essere ignota, il disastro attiguo e il boato di quel missile che colpisce Chicago sempre più vicino, la psicologia dei personaggi diventa centrale. Kathryn Bigelow racconta attraverso una sceneggiatura che passa oltre e veloce a termini tecnici ed esplicazioni di carattere militare, perché nel cuore della storia, a mancare sono proprio le parole. Rimangono “scelta tra resa e suicidio” e “si tratta colpire un proiettile con un proiettile“, insieme alle ultime laceranti parole d’affetto nel dramma di un tempo che forse non si avrà più. A House of Dynamite, nella narrazione che adotta più punti di vista, si concentra su tutti i personaggi, principali e secondari, perché quell’intricato confuso vortice di emozioni provate è uguale per tutti. Per la prima volta uguali, deboli, inefficaci e inutili di fronte a ciò che non è dato predire, anticipare e forse neanche immaginare. Perché è l’inammissibilità, la totale irrealtà di quando sta accadendo ad accumunare tutti.
Consapevoli che forse convivere con quel ricordo non è possibile né concepibile, solo un futuro irrealizzabile. La fotografia nitida, brillante e definita di una cinematografia statunitense che contrappone alla tragicità del mondo minacciato dalle armi nucleari, la lucentezza di una giornata dove il cielo è stranamente terso, il tramonto striato di un arancione pieno di una luminosità abbagliante. Così improvviso, inaspettato e che ha colto tutti impreparati, neanche la natura è stata all’altezza della situazione. A House of Dynamite è un thriller avvincente, un dramma appassionante e un’introspezione che, nel suo trascinare lo spettatore, è straziante. L’impatto del film di Kathryn Bigelow è innegabile, e l’attenzione è altissima dal primissimo minuto. Anzi sin dalla scritta che compare sul nero, prima che il film effettivamente inizi: “alla fine della Guerra Fredda le potenze mondiali concordarono sulla descalation nucleare. Oggi quell’era è terminata“.
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