28 anni dopo: recensione del film di Danny Boyle
Tornano Danny Boyle e Alex Garland con 28 anni dopo, il terzo film (e primo di una nuova trilogia) del franchise post-apocalittico cominciato con il cult del 2002. Dal 18 giugno 2025 in sala.
Vent’anni (e qualcosa in più) fa – il nostro tempo non coincide con quello del franchise – la triade Danny Boyle (regia), Alex Garland (script) e Cillian Murphy (protagonista) rivitalizza l’immaginario zombie con una fantasia post-apocalittica che ha plasmato un pezzo di immaginario pop del XXI secolo. Il film si chiamava 28 giorni dopo ed ebbe il merito, noterete l’involontaria ironia, di riportare in vita (!) un sottogenere horror – zombie e dintorni – all’epoca abbastanza malandato. Il 18 giugno 2025, per Eagle Pictures, arriva nei cinema italiani 28 anni dopo, regia di Danny Boyle e script di Alex Garland – solo produttore esecutivo, stavolta, Cillian Murphy – il primo di una serie di tre film – il secondo uscirà nel 2026 per la regia di Nia DaCosta, il terzo è in attesa di luce verde – nati per dilatare, approfondire e riscrivere immaginario e temi del capostipite. Va detto che la distanza simbolica che separa la quotidianità del 2025 dal futuro non troppo lontano di 28 anni dopo è meno pronunciata rispetto a quella che separava il film del 2002 dal mondo di allora. Siamo nei guai, noi. Sono nei guai, loro. Loro chi? Ma è presto detto: Jodie Comer, Aaron Taylor-Johnson, Ralph Fiennes, Alfie Williams.
28 anni dopo: il virus, il nuovo mondo, i vecchi problemi

Il terzo film, ma anche un po’ il secondo. Senza scordare il valido 28 settimane dopo (2007), per spirito, filosofia e autorialità – c’è di nuovo al timone il duo Boyle-Garland – è 28 anni dopo l’incontestabile sequel del cult post-apocalittico del 2002. Non che vada inteso come seguito diretto di 28 giorni dopo, no; è passato tanto tempo, forse troppo, per concedersi il lusso di proseguire con quel tipo di racconto. La strada scelta da Danny Boyle e Alex Garland è di usare l’immaginario dell’originale per costruire una storia che ne porti avanti il discorso con coerenza, affidandosi a scenari e personaggi inediti.
L’apocalisse zombie è la conseguenza del propagarsi di un virus, il virus della Rabbia. Le notizie sono due, una buona e una cattiva. La buona è che il resto del mondo, l’Europa in particolare, è riuscito a debellarlo. La cattiva è che non si può dire lo stesso del Regno Unito. I governi europei, per sigillare l’isola e impedire una recrudescenza della Rabbia (la maiuscola è d’obbligo), hanno imposto una quarantena permanente sul territorio britannico. I pochi superstiti devono cavarsela da soli ricostruendo, per quanto è possibile, il mondo di prima. Il mondo ricostruito è un passato inglese non troppo recente, diciamo metà del Novecento o giù di lì, adattato per l’occasione.
A differenza dei primi due film 28 anni dopo ha il vantaggio di costruire il suo immaginario attingendo a piene mani al repertorio della nostra attualità più o meno recente, sia la bolla pandemica del 2020 e seguenti, sia il successo di un modo reazionario di pensare il mondo e la politica deflagrato con il ciclone Brexit nel 2016. L’isola separata da una stretta lingua di terra in cui vivono i protagonisti è una società parecchio tradizionale, si dica pure retrograda. Gli uomini come Jamie (Aaron Taylor-Johnson) cacciano; le donne, come sua moglie Isla (Jodie Comer), provvedono al resto.
Isla è malata, ha qualcosa di neurodegenerativo che le esplode nella testa, con grande dolore del figlio Spike (Alfie Williams). Jamie porta Spike in perlustrazione nei boschi della terraferma per uccidere zombie. È una sorta di rito di passaggio; da quelle parti, si diventa uomini uccidendo. Spike riesce tanto bene che decide, all’insaputa di tutti, di uscire di nuovo, portarsi dietro la madre e raggiungere sulla terraferma il misterioso dottor Kelson (Ralph Fiennes), che forse ha una cura per Isla. Chilometri di terre selvagge e inesplorate, popolate di infetti affamati, separano l’isola dal riparo di Kelson. Cosa può andare storto?
Ci sono racconti di formazione giusti e racconti di formazione sbagliati

È difficile parlare di 28 anni dopo dividendo in modo sommario le responsabilità. Non è questione di Danny Boyle o Alex Garland, ma piuttosto di Danny Boyle e Alex Garland. Il duo è il mostro a due teste che serve all’horror, e, nello specifico, al filone apocalisse zombie, per andare avanti. Il loro sguardo si avvicina di più alla carica politica e sovversiva, anche perfidamente ironica, di un George A. Romero (Night of the living dead ma non solo), piuttosto che alla poesia malinconica di Jacques Tourneur (I walked with a zombie), tanto per citare le stelle polari. C’è un’idea interessante, di scrittura, che la regia nervosa di Danny Boyle serve bene – c’è pure la fotografia sporca e perfettamente imperfetta di Anthony Dod Mantle, orgogliosamente digitale, in controtendenza con il ritorno al passato (pellicola) di tanti colleghi – e sarebbe lo sdoppiamento della struttura narrativa.
Il viaggio del giovane eroe, il bravo Alfie Williams – credibile nell’azione e nel pathos, con una maturità insolita data la molto giovane età – ha, non uno, ma due racconti di formazione da gestire. Il primo, tradizionale, con il papà Aaron Taylor-Johnson: rispondere alla minaccia del virus facendo a pezzi il nemico, perché è questo fanno i veri uomini, no? Uccidono, senza chiedere scusa. Il secondo, che comincia subito dopo la fine del primo, è quello che conta davvero, la versione riveduta e corretta. Stavolta, i compagni di viaggio sono la bravissima Jodie Comer e l’ubiquo Ralph Fiennes. Finito il conclave, si è brevemente fermato a Itaca per finire tra le grinfie dell’apocalisse zombie e farsi portavoce della morale della favola di 28 anni dopo, il degno sequel di un classico moderno.
Il film combina azione e intelligenza – rubando forme spaventose alla nostra contemporaneità, dal Covid all’ascesa delle retoriche reazionarie e populiste – per raccontarci che il mondo di prima è andato in pezzi e bisogna farne uno nuovo, nel modo giusto. Il senso del secondo viaggio di Spike è correggere le imperfezioni del primo. La vita è complicata, e imbracciare un’arma può fare ancora la differenza. Ma c’è anche altro. La paura della morte non va risolta uccidendo e basta, al modo di papà. Bisogna dare ascolto, sussurra 28 anni dopo, anche alla mamma. Lei non cede alla paura e resta umana, intuendo che non si può vincere sempre e che talvolta la risposta più sensata alla morte è una dignitosa accettazione. Il segreto di 28 anni dopo, l’intelligente e drammatica morale, ci fa capire a cosa serva il cinema di genere quando è fatto bene: a scrivere un manuale di sopravvivenza esistenziale per tempi bui, camuffato da spettacolo elettrico e sanguinolento.
28 anni dopo: valutazione e conclusione

Danny Boyle è un autore particolare, un autore-non autore. Da Trainspotting a The Millionaire, non è mai questione di temperamento artistico, o di una personalità che si impone con una serie di temi e idee ricorrenti. La sua autorialità è il gusto per una messa in scena veloce, nervosa, accompagnata al fiuto di scegliere spesso i giusti collaboratori, dal già citato Alex Garland al lavoro sulla colonna sonora di Hildur Guðnadóttir e degli Young Fathers (gruppo hip hop britannico). Andrebbe ricordato il bell’uso che 28 anni dopo fa di una poesia di Rudyard Kipling, “Boots”; l’incedere ripetitivo ma sempre più incalzante dei versi riassume bene il tono fosco e straniante del film e l’atmosfera di militarizzazione permanente.
In qualità di primo capitolo di una trilogia ha la frustrante abitudine, tipica di tutti i film “seriali”, di non concludersi affatto, lasciando un mucchio di conti in sospeso in attesa del prossimo capitolo. C’è in effetti molto che il franchise può esplorare in futuro di questo mondo, su tutti la fauna degli infetti (i Lenti Bassi e i temibili Alfa, per esempio). Per ora, c’è un sequel che sopravvive al peso delle aspettative e sa coniugare ritmo, emozione e riflessione. Non è poco.