Un affare privato: recensione della serie Prime Video

Un affare privato, disponibile su Prime Video dal 16 settembre, ci porta nella Galizia degli anni Quaranta grazie alla detective protagonista e al suo maggiordomo. Alla scoperta di una terra meravigliosa e della coscienza femminista.

Le definizioni non piacciono a nessuno, ma, se proprio proprio dobbiamo, Un affare privato, lo show spagnolo in otto episodi realizzato dalla stessa casa di produzione e dagli stessi showrunner dei grandi successi pop Velvet, Grand Hotel e Le ragazze del centralino, sarebbe riconoscibile nella pletora di serie a favore di streaming come un glam crime drama che mescola azione, humor e coscienza femminista in patina glitterata. 

Un affare privato: le avventure comico-criminali di una detective in gonnella che lotta per poter participare al gioco “degli uomini”

un affare privato recensione cinematographe.it
Marina con il fido maggiordomo Héctor (Jean Reno): grazie alla sua acuta sensibilità, riesce a raccogliere e a interpretare numerosi indizi.

La protagonista Marina Quiroga (Aura Garrido) appartiene all’alta società galiziana, che è tutta un party e uno scintillio. Eppure, come spesso avviene per chi nasce nel privilegio, nutre un certo interesse per i bassifondi e per i misteri che celano, del resto retaggio infantile dei giochi fatti da piccola con il padre poliziotto che era solito inventare, ma la realtà non era così lontana dalla fantasia, per lei e il fratello Arturo – guarda caso, erede designato della tradizione famigliare – casi da risolvere per mettere alla prova e temprare le capacità investigative dei rampolli. Dei due, però, la passione sembra custodirla e alimentarla, nondimeno facendosi arrivare dall’estero riviste criminologiche specializzate che preferisce a quelle di moda, soprattutto lei, la femminuccia.  

La madre, Donna Asunción, non perde la speranza e fa pressione affinché si sposi e si assicuri un buon partito che la protegga dai pericoli del mondo, ma Marina è risolutamente affascinata dall’uomo ‘nero’ che, là fuori, sta uccidendo prostitute in serie lasciando loro inciso in petto il simbolo di un giglio (si legga: purezza, verginità). Ad assecondare la sua ambizione investigativa è il maggiordomo Héctor (interpretato nientemeno che da Jean Reno, sempre eccezionale), il quale l’aiuta a districare gli elementi indiziari grazie alla sua acuta sensibilità percettiva ed analitica. Ostacolata dal fratello che, se fosse ancora una bambina, “la sculaccerebbe e rinchiuderebbe in camera”, Marina bisticcia spesso con Pablo, il nuovo commissario di polizia, ma l’apparente ostilità di quest’ultimo non deve confonderci, perché, più che invito a restare nei ranghi, potrebbe disvelarsi quale segno di riposta fascinazione. 

Una produzione spagnola che racconta, in termini fiabeschi, un desiderio femminile che non si estingue di fronte all’interdizione

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Nella ricerca della verità, Marina è affiancata da Pablo (Gorka Otxoa), commissario di polizia.

Un affare privato è un racconto visivo veloce e ritmato, in cui la dimensione dinamica prevale sulle altre: pieno di brio e di humor, procede svelto nei suoi rivolgimenti e nella falcata dell’eroina protagonista verso l’emancipazione. Le sue continue sottolineature di quanto quotidianamente le venga negato per il fatto di essere una donna in una società machista e maschiocentrica possono sì risultare stucchevoli proprio perché insistite, ma nulla del personaggio, calcolatamente sopra le righe e trascinato del vento del suo ribellismo, risulta disallineato ai codici di un genere, la flessione popromance del crime, che, per sua natura, sconfina – e deve sconfinare – nella fiaba e nella trasfigurazione romantica. 

Le rivendicazioni di Marina assumono, nell’assenza di contorni storici – la serie è ambientata negli anni Quaranta, ma della cupezza asfissiante del Franchismo non si contamina e non vi è nessun elemento discreto che possa ricondurvi –, un carattere universale: la bambina dotata è stata costretta alla passività dalla trasmissione, soprattutto materna, di un pregiudizio sul proprio sesso, esposto di continuo alla minaccia di una violazione e, per questo, condannabile al sacrificio del godimento di sperimentarsi vulnerabili alle cose che accadono, spesso affatto rassicuranti, ma nella loro crudezza vivificanti. 

Un affare privato: un guilty pleasure per ‘staccare’ e per scoprire l’altrove meraviglioso della Galizia spagnola

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La signorina bene Marina Quiroga (Aura Garrido) vuole fare la poliziotta in una società in cui dalle donne ci si attende solo che si sposino e si realizzino affettivamente.

C’è sempre bisogno di rappresentazioni del desiderio femminile, anche se, come in questo caso, vengono tracciate a tratto grossolano, riscaldate da un’ingenuità che è come una coperta corta: dà e toglie, non basta mai a coprire tutto ciò che andrebbe coperto. Un affare privato rientra, a diritto, nella grande categoria dei guilty pleasure, categoria che andrebbe tutelata e affrancata dallo stigma che sempre la marchia nella consapevolezza di tutti – autori, attori e spettatori – della sua intrinseca perversità di oggetto di consumo, lieve e intrattenitivo, che aggancia il nostro bisogno inconscio di ripararci dalle brutture infelicitanti del quotidiano, finanche di rimuoverle codardamente. 

Un affare privato è, in estrema sintesi, un’opera naïf che ci permette di ripassare i fondamentali del femminismo senza mai annoiare e, in un surplus di guadagno, ci offre l’occasione non solo di staccare ma anche di scoprire, se non il tempo storico, almeno lo spazio, nella fattispecie la Galizia spagnola: il set mobile ci consente, infatti, di esplorare, senza pretese ma in modo comunque significativo, almeno un pezzettino di una terra ancora poco mediaticamente rappresentata, meravigliosa e per nulla mainstream. Un piccolo scrigno di ribellione, pur all’interno di un prodotto esteticamente omologato, alle iconografie dominanti.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3

3