Ossessione: recensione della miniserie Netflix

Tratta dal romanzo bestseller del 1991 Il danno, Ossessione manca di cogliere il senso del testo che adatta. E, anche se è stato rubricato come thriller erotico, di erotismo non se ne vede. Al massimo, c'è un po’ di sesso.

Sfugge la ragione per la quale gli sceneggiatori della serie TV Netflix OssessioneMorgan Lloyd Malcolm e Benji Walters – di Ossessione, miniserie in quattro episodi disponibile da qualche giorno su Netflix e tratta dal romanzo bestseller di Josephine Hart Il danno (1991), siano arrivati impreparati al lavoro. Per stessa ammissione della prima, hanno scelto di non guardare, al fine di non farsene influenzare, l’adattamento cinematografico, con Jeremy Irons e Juliette Binoche protagonisti, che Louis Malle ha ricavato dal libro nel 1992, un anno dopo la sua pubblicazione e l’immediato successo internazionale. Avrebbero, invece, dovuto farlo e magari prendere appunti (anche interpretativi, dal momento che il cast impallidisce al confronto con quello – gigantesco – riunito a suo tempo da Malle). Ma, ancor più, avrebbero dovuto assicurarsi di aver compreso il testo narrativo di partenza. Difficile pensare di poter adattare e attualizzare qualcosa che non si è compreso. 

La serie TV Netflix non riscrive la sua fonte, Il danno, di Josephine Hart, e neanche sembra comprenderla bene

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‘Ossessione’, miniserie britannica in quattro episodi disponibile su Netflix.

Ossessione cambia titolo al romanzo, aggiorna una vicenda ambientata più di tre decenni fa e ribattezza, per qualche oscuro motivo, alcuni dei suoi personaggi principali: il cardiochirurgo con ambizioni politiche Stephen diventa William, mentre sua moglie Ingrid – una donna facoltosa, discendente di una prestigiosa casata – resta Ingrid e così anche la secondogenita Sally, laddove il primogenito, nel libro Martyn, prende il nome di Jay. Anna Barton resta Anna Barton. Ma chi è questa ragazza dal viso pulito che finisce per incatenare a sé, in uno stato di perdizione, il padre (Stephen-William) del proprio fidanzato (Martyn-Jay), fino a condurre entrambi – promesso sposo e suocero – al precipizio? Il romanzo lascia irrisolto l’enigma, sospendendo il giudizio sulla sua condotta e nondimeno rinunciando all’analisi dei moventi: un personaggio ben costruito sfugge alla categorizzazione psicologica e alla tipizzazione dei tratti. Il finale getta un’ombra anche sullo stesso protagonista maschile, suggerendo fino a che punto questi avesse proiettato sulla donna le proprie mancanze e i propri fantasmi. 

Di Anna sappiamo, però, che ha subìto un danno – vale a dire un trauma/taglio – e che questo danno le ha insegnato che le persone come lei, quelle danneggiate, continuano comunque a vivere. Il dolore, a volte, sembra autorizzare all’impunità e spinge chi lo ha provato e ne è stato sopraffatto a trovare soluzioni, spesso non solo autolesioniste ma anche sadiche, per contenerlo, nell’impossibilità di dargli un ordine, un senso. Eppure, come si può considerare carnefice una vittima? Il romanzo esplora, tra le altre cose, un confine impossibile da delimitare: Anna Barton attrae a sé – seduce – il padre del fidanzato rendendo impossibile a quest’ultimo rinunciare a lei e quello che lei gli suscita. Che cos’è quello che lei gli suscita? Il desiderio, in primo luogo. Non solo un appetito sessuale, un prurito copulatorio. Un uomo che non si era mai sentito vivo, grazie a una donna, sperimenta la sensazione di esserlo e, così, non può più tornare indietro, nonostante quella donna sia la fidanzata del figlio. In fondo, il danno è sia di Anna sia di Stephen, il quale, nell’incontro traumatico con una sessualità fino a quel momento rinnegata o ‘congelata’, subisce un urto e un’ustione. Ugualmente, Anna non è solo una vamp predatrice, e quale sia l’implicazione soggettiva nel triangolo incestuoso che instaura, del resto, non è e non può essere chiara, perché il suo comportamento sembra determinato da uno schema inconscio, irriducibile a un discorso di volontà.

Josephine Hart non calca la mano sugli psicologismi e non predispone nessuna morale: la bellezza del suo romanzo, oggi forse un po’ dimenticato, ma pur sempre attualissimo, si rivela nella finezza con cui smargina e confonde le possibilità di lettura della vicenda, evitando inoltre di tirare una linea netta tra bene e male. Louis Malle, che ha adattato per primo il romanzo, in quello che sarebbe stato il suo penultimo film, restituisce a pieno l’evocatività del testo e l’impossibilità di trarne una lettura unitaria e razionale. Quel che fanno gli autori della serie Netflix è, invece, tentare di riportare in un territorio protetto, codificato, la materia indomabile – e infatti non domata, ma costeggiata, delicatamente inseguita dalla forma della scrittura prima del romanzo e poi del film – al centro del testo: l’ingovernabilità del desiderio. Il desiderio non è sesso, anzi il suo contrario, e, con il sesso non si appaga, ma, come accade al protagonista maschile della storia, rinfocola, accresce, rilancia ancora e ancora. La relazione tra William e Anna nella serie sembra invece irreggimentare – più che liberare – il desiderio, utilizzando le pratiche BDSM, condotte sessuali che, di fatto, sono regolate da un esplicito consenso tra le parti, come strumento di disciplina e di controllo di ciò che, per natura, è indisciplinabile e incontrollabile.  

La fantasia di dominio di uno sull’altro partner può esprimersi, ma a patto che sia controllata. È un paradosso: si intende controllare il proprio desiderio di controllare e di essere controllati, ma, così facendo, cosa resta di quello stesso desiderio?  Appunto una disciplina, nulla più. Gli stessi creatori di Ossessione hanno ammesso di aver voluto attualizzare il racconto originale introducendo il motivo del consenso: un’operazione di riscrittura in piena ottemperanza dello spirito woke che, però, banalizza e addomestica il testo di partenza, tradendolo e trascinando ai minimi termini la sua riflessione

Ossessione: valutazione e conclusione

Ossessione; cinematographe.it

Netflix riprende, dunque, un romanzo di enorme successo all’inizio degli anni Novanta – Il danno, di Josephine Hart – e ne ricava una miniserie in quattro episodi che non raggiunge, però, né una riscrittura autonoma rispetto alla fonte né un adattamento fedele allo spirito del testo e alla sua estrema finezza formale e psicologica. Benché definito thriller erotico, Ossessione – la storia di un uomo affermato che perde la testa fino a (auto)distruggersi per seguire la passione nei confronti della fidanzata del primogenito – non restituisce alcuna vertigine erotica, ma anzi semplifica, fino a una banalizzazione tanto soporifera quanto triviale, la relazione irregolare, sconveniente e distruttiva tra i due protagonisti. 

L’introduzione, nella storia, – a ben vedere, uno dei pochi elementi di reinterpretazione –, del motivo delle pratiche BDSM sembra rispondere, più che a un’esigenza drammaturgica, all’urgenza extra-artistica di attribuire al rapporto tra i personaggi una lettura edificante, al passo con la sensibilità ‘pedagogica’ presuntamente attuale: se anche il desiderio si rivela nella forma di una fantasia di sopraffazione di un partner sull’altro, ciò non avviene al di fuori di un esplicito consenso tra loro, di una regolamentazione del desiderio stesso. Il che equivale a dire che ciò non avviene al di fuori di un annullamento del desiderio. E, infatti, Ossessione, non solo delittuosamente non comprende il romanzo che pretenderebbe di adattare, ma neanche sembra elaborare uno studio sull’eros, un’immaginazione propria sulla sua natura sfuggente.

Regia - 2
Sceneggiatura - 1.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 2
Sonoro - 2
Emozione - 1.5

1.9

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