One Piece: recensione della serie live action su Netflix

Dal 31 agosto 2023 su Netflix c'è One Piece, la serie live action tratta dal popolarissimo manga di Eiichiro Oda. Luffy e la sua ciurma alla ricerca del più grande tesoro dei mari.

In principio era il manga. Poi vennero, più o meno in quest’ordine – i puristi non si scandalizzeranno – la serie animata, i film e i videogiochi. Era inevitabile (inevitabile?), muovendosi su questa china, assecondare il prurito e concedersi un ulteriore piccolo grande salto. E così, dal 31 agosto 2023, è disponibile su Netflix la prima stagione della versione live action di One Piece. Adattamento dell’immensamente popolare serie manga creata da Eiichiro Oda, saldamente al primo posto in Giappone per numero di copie vendute. Creata da Matt Owens e Steven Maeda, qui in veste anche di showrunner, interpretata da Iñaki Godoy, Emily Rudd, Mackenyu, Jacob Romero, Taz Skylar, Morgan Davies. Parole chiave, da snocciolare come un rosario: casa, famiglia, sogni, amicizia, pirati, libertà. E mare, soprattutto.

One Piece: Luffy e i Pirati di Cappello di Paglia

One Piece; cinematographe.it

Monkey D. Luffy (Iñaki Godoy), Luffy per gli amici, è uno sbarbatello dei quattro mari cresciuto alla “corte” del grande Shanks (Peter Gadiot), pirata e avventuriero che gli fa un po’ da padre e un po’ da fratello maggiore. Non c’è dubbio che sia proprio la sua influenza a convincere il ragazzo che c’è una sola strada nel suo futuro, diventare pirata. Ma non uno qualunque, no, Luffy punta al bersaglio grosso: il titolo di Re dei Pirati. Si può ottenere recuperando il leggendario One Piece, il tesoro del Re Gold Roger, sepolto da qualche parte lungo la Rotta Maggiore. Sarebbe il cimitero dei pirati, il punto più pericoloso dei Quattro Mari: Orientale, Settentrionale, Occidentale e Meridionale. Luffy è un figlio del Mare Orientale. Ha un sogno nel cassetto, tutti ne hanno in One Piece. Il tesoro però non può recuperarlo da solo, gli serve un equipaggio. Ha una stagione, otto episodi, per assemblarlo.

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E se è vero che tutti sognano, ciascuno lo fa a modo suo. A Luffy però non importa: ha un cuore grande, un entusiasmo travolgente, vede il meglio nelle persone e non è geloso delle aspirazioni altrui. La sua ciurma è piena zeppa di sognatori incalliti. I Pirati di Cappello di Paglia, li recluta uno per uno nel solomodo che conosce, sbattendoci contro o lasciandosi manovrare dal destino. C’è Roronoa Zoro (Mackenuy), il primo ufficiale, che aspira a diventare il miglior spadaccino del mondo e ha un passato burrascoso (un tratto condiviso da parecchi). Nami (Emily Rudd), ladra, cartografa e molto testarda. Usop (Jacob Romero), mira infallibile, l’ambizione di diventare un grande guerriero e la tendenza a infiocchettare i racconti delle sue imprese; bugiardo di bordo e cannoniere. Ultimo è Sanji (Taz Skylar), cuoco latin lover che sogna il Grande Blu, l’oceano che raccoglie tutti i mari, dove è possibile trovare ogni specie di pesce. Questi gli amici, peccato che a una buona storia non bastino. Servono anche i nemici.

Ora, Luffy è un pirata ma la sua idea del mestiere è lontana dallo stereotipo: fuori legge, certo, ma in modo luminoso e se c’è da usar violenza, solo con chi se lo merita. La Marina, che si occupa di tenere a bada le intemperanze dei pirati nel Mare Orientale, lo insegue lo stesso. Garp (Vincent Regan) è il brizzolato viceammiraglio fortemente determinato a mettere ai ferri Luffy e la sua gang. Al suo fianco Kobi (Morgan Davies), recluta di belle speranze che nasconde un segreto: infatti, pur facendo parte della Marina, è amico e confidente di Luffy. Kobi è la prima persona cui il protagonista ha chiesto di far parte della sua ciurma e l’unica ad aver rifiutato. Sceglie la Marina per aiutare chi ha bisogno; Luffy comprende e rispetta. L’amicizia tra i due resta l’unico ponte di comunicazione tra pirateria e Marina. In un mondo molto inclusivo come quello di One Piece, pieno di uomini e bestie antropomorfe, il nemico è comune: tra Luffy e il tesoro, tra la Marina e la necessità di far pulizia nei mari, si intromette l’uomo-pesce Arlong (McKinley Belcher III).

Tutta questione di elasticità

One Piece cinematographe.it recensione

Dimenticato qualcosa? Forse è l’elemento (narrativo, grafico) più importante, certo il più riconoscibile. Ricorrendo all’orribile aggettivo, usato spesso a sproposito, verrebbe da dire iconico. Luffy mangia un Frutto del Diavolo e acquisisce un’elasticità prodigiosa che è un po’ il suo marchio di fabbrica e un bel pretesto per interessanti scene d’azione. Ecco, la riuscita di One Piece, la serie live action, si misura esattamente lungo questo crinale. La capacità di replicare, con attori in carne ed ossa, la flessibilità, l’energia, l‘entusiasmo, il (poco) realismo (molto) magico dell’originale, sarebbe meglio dire degli originali: manga e cartone animato. Di fatto, a livello esteriore, la flessibilità è un dato di fatto: Luffy & Co. hanno colonizzato praticamente ogni mezzo espressivo. E se ne aggiungeranno di nuovi, non dubitate. Troveranno il modo.

Per sfondare con il live action si punta al budget importante, si lavora sugli ambienti; fondamentale restituire allo spettatore quanto più possibile dell’irrequietezza, dello slancio, della precarietà (felice) di una vita da pirati: non si getta mai l’ancora nello stesso posto troppo a lungo. One Piece è una serie coerente, nel rapporto con le fonti, sia in termini di atmosfera che di intelaiatura tematica. Luffy, Nami e Zoro sono bambini cresciuti in fretta ma che, ciascuno con il suo passo, hanno trovato il modo di restare fedeli al bambino/a che erano. Indipendenza di spirito, in un mondo in cui libertà vuol dire rimanere devoti ai propri sogni. L’ostinato perseguimento del desiderio è il mantra di One Piece, dall’idea originale a firma Eiichiro Oda all’ultimo intervento (per il momento) della coppia di showrunner Matt Owens e Steven Maeda.

E se la prova della coerenza è superata, One Piece ha un bel daffare a eguagliare l’energia tesa e vibrante del fumetto prima, del cartone poi. La figura animata non conosce limiti che non siano quelli imposti dalla penna che l’ha creata. Con attori in carne e ossa non funziona proprio così. Dell’opportunità di proseguire un discorso come quello di One Piece, che prima del live action aveva già conosciuto un numero impressionante di incarnazioni (manga, tv, cinema e videogiochi), si può discutere a lungo. Si tratterebbe però di considerazioni fuori tempo massimo, perché la serie è qui ed è più utile interrogarsi sugli effetti (il prodotto finito) che filosofeggiare sulle cause. Imperfetta ma dal solidissimo potenziale d’intrattenimento, One Piece profuma di brezza marina e avventura indiavolata. Presa tra due fuochi, fedeltà all’originale e il bisogno di aprirsi a un pubblico il più ampio possibile.

One Piece: valutazione e conclusione

One Piece cinematographe.it recensione

In effetti, l’obiettivo di One Piece, almeno della prima stagione, è ragionevole supporre che ce ne saranno delle altre, è questo: da un lato, saziare l’appetito vorace dei fan della prima ora ma anche dei più recenti, senza alimentare clamore d’eresia. Dall’altro, semplificare il più possibile le dinamiche emotive e narrative (la serie è in effetti piuttosto didascalica) per catturare l’attenzione dei distratti o di chi non ha dimestichezza con la storia (statisticamente parlando, la maggioranza). Coerente, certo, meno elastica dei predecessori, accessibile ai neofiti ma senza correre troppi rischi, One Piece ha bisogno di una seconda stagione, forse una terza, per perfezionarsi. La nave è appena partita, serve buon vento.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 2.5

2.5

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