Funny Woman: recensione della serie TV in onda su Sky

Fortunato adattamento di un romanzo di Nick Hornby, Funny Woman con Gemma Arterton offre intrattenimento con brio e intelligenza. Ed è la cosa più autenticamente femminista che potete vedere in questo momento.

In Funny Woman, la serie TV in onda su Sky e NOW dal 2 giugno 2023, Barbara Parker (Gemma Arterton) è una reginetta di bellezza nata e cresciuta in provincia, ma non vuole essere né l’una né l’altra cosa: una provinciale che si lascia fare i complimenti solo per il bel musino e le belle gambe. Se restasse nella Blackpool natia, la sua vita seguirebbe un copione certo: impiegata in una fabbrica di dolciumi, moglie di un aitante macellaio approvato dalla zia. Tuttavia, lei per sé vuole di più: desidera sperimentare la Swinging London dei Beatles e degli impresari di spettacolo, la città dei grandi cambiamenti sociali, quella in cui è possibile, anche se si è belle, farsi strada, da protagoniste, nel mondo della comicità e rimescolare i pezzi che compongono il cliché: a una donna di bell’aspetto non per forza dovrà corrispondere l’umorismo di un manichino a cui è stato infilato un ridicolo cappello di pelliccia, bensì la sorpresa di una personalità cangiante, che spiazza sia le attese di compitezza sia quelle di una stravaganza bizzosa e depensante.

Funny Woman: da un romanzo di Nick Hornby, una favola di emancipazione femminile che diverte, intrattiene e insegna

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Funny Woman, riadattamento del quasi omonimo romanzo del prolifico e pluridecorato scrittore britannico Nick Hornby, segue la buffa Barbara – ha un paio di lettere ‘mosce’, forse la necessità di vedere un logopedista, ma l’effetto è effervescente e non stucca mai – nell’evoluzione non solo nel suo alter ego televisivo Sophie Straw – un’attrice brillante che, ironia della sorte, interpreta proprio una donna di nome Barbara e diventa, nel tempo, protagonista di uno show pionieristico –, ma anche in una donna che, anziché subire le scelte altrui, è in grado di compierne di proprie e di emanciparsi dai tanti padrini e padroni, esteriori e interiori: dal senso di colpa di aver ‘accantonato’ la famiglia al senso di gratitudine per un agente che le ha dato l’occasione di sperare fino, ben più concretamente, all’aspettativa altrui su chi dovrebbe amare. E, mentre si sfila uno a uno tutti i condizionamenti, quasi per effetto di un contagio magico, mostra a chi le sta accanto come fare la stessa cosa e, così, anche regista del suo show, uomo di cultura insofferente allo snobismo del suo ambiente e al machismo dei suoi pari, trova il coraggio di affrontare le crepe di un matrimonio tenuto in piedi soltanto da somiglianze apparenti.

Gemma Arterton, nel ruolo di Barbara Parker-Sophie Straw

Il romanzo di formazione di Barbara-Sophie s’inserisce, infatti, in un ritratto d’epoca che sia il romanziere sia gli autori che si sono occupati della riscrittura drammatica concepiscono come speculare al nostro tempo e di cui intravedono le numerose corrispondenze rispetto al presente: nella Londra degli anni Sessanta, gli autori di un programma della tv generalista propongono modi nuovi di pensare, codificando forme alternative di relazione, non solo aprendo alla rappresentazione dell’omosessualità, ma anche riformulando i ruoli all’interno della coppia eterosessuale, mentre la commessa del reparto scarpe di un grande magazzino sviluppa autocoscienza delle ingiustizie grazie a un gruppo di ascolto femminista e una giornalista di colore chiede che la sua integrazione in un programma di informazione non assuma la forma di una concessione, della manifestazione di un atteggiamento di tolleranza soltanto formale, bensì si configuri come una sostanziale decolonizzazione del pensiero dominante.

La cura riservata prima alla scrittura e poi all’interpretazione di tutti i personaggi, in una coralità che non lascia indietro nessuno e nessuno relega a riempitivo, garantisce sia la tenuta del ritmo sia l’efficacia delle riflessioni proposte attraverso la punteggiatura scenica, in una convergenza virtuosa verso il comune obiettivo non soltanto dell’intrattenimento di qualità, ma anche della favola intelligente, in cui convivono l’incanto del sogno e la necessità del risveglio. Funny Woman è divertente come la sua eroina, ma, come la sua eroina, non vuole divertire soltanto, ma divertire avendo “qualcosa da dire“.

Funny Woman: valutazione e conclusione

‘Funny Woman’ è una serie britannica in sei episodi tratta da ‘Funny girl’ di Nick Hornby.

Relegato all’inizio della stagione estiva – ed è un peccato –, Funny Woman sorprende per l’attenzione prestata alla caratterizzazione di personaggi ed ambienti, filologicamente ricostruiti in pieno stile British, e al discorso sul tempo storico – gli anni Sessanta, forieri di consapevolezze e urgenze di cambiamento – in concomitanza con la necessità di ripensare il passato alla luce della contemporaneità, per ciò che non tanto ha da ipotecare, ma che ciclicamente ripresenta come ineludibile. L’eroina protagonista – una provinciale in cerca di fortuna che potrebbe puntare sul suo aspetto fisico, ma non vuole farlo – confonde le acque grazie a una determinazione a cui ancora oggi le donne sono chiamate per affermarsi, tra condizionamenti, cliché e compromessi: in un crescendo di ritmo che riproduce simmetricamente la sua maturazione, dimostra che una donna bella può essere capace anche di far ridere e che una donna capace di far ridere può anche insegnare qualcosa, educare all’ascolto di quello che, dentro e fuori di noi, si sta muovendo e chiede di essere riconosciuto.

A differenza de La fantastica Signora Maisel, Barbara-Sophie non proviene da un ambiente privilegiato e sconta il pregiudizio sessista più di quello classista, ma in Funny Woman vengono smantellati anche numerosi altri steccati sociali: tra i personaggi principali, ci sono quello di un regista indiano ben educato – e ben educato significa Cambridge – che, nonostante ciò, fatica a far dimenticare la propria origine etnica e, d’altra parte, a disidentificarsi dal prestigio di una formazione tanto elevata, e quello di una reporter nera che comprende come chiedere di avere uno spazio non significhi rivendicare o elemosinare qualcosa che può essere concesso, ma occupare un posto che spetta di per sé e non perché dovuto da qualcuno. Oltre a loro, due autori queer vogliono far cadere la maschera e una working class heroine impara a sostenere le altre donne, anziché invidiarle, criticarle, gareggiare con loro, nella consapevolezza che ciascuna storia femminile è insieme condivisibile e a sé, discorso collettivo e singolare. I lacci identificatori che ci legano e ci impalano sono molteplici e spesso invisibili: non sempre possono essere individuati – e quindi sciolti – alla prima occhiata, dopo una facile lettura di realtà. Funny Woman allora ci accompagna, con eleganza, (ma) senza annoiarci, verso una lettura un po’ meno sommaria e verso lo scioglimento di almeno alcuni di quei lacci. In attesa di una seconda stagione.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

4

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