Dostoevskij: recensione della serie TV dei fratelli D’Innocenzo

I fratelli D’Innocenzo sprofondano Filippo Timi e Carlotta Gamba in un vortice spietato e senza fine, di abbandoni, solitudini e disperazione. Dal mese di giugno nelle sale cinematografiche italiane, la serie thriller in anteprima mondiale alla 74° edizione della Berlinale

Dostoevskij si apre su un suicidio: c’è un uomo a terra e una lunga serie di farmaci messi in fila maniacalmente sul tavolo di una sala da pranzo spoglia e desolata – oltreché desolante – e forse una morte, che è già avvenuta, in un tempo che ci è dato conoscere e osservare soltanto in seguito, tuttavia, ancora sospesa tra il mondo dei vivi – che sono già morti, eppure non lo sanno – e quello dei morti veri e propri, là dove tutto tace, là dove tutto finisce. Un suicidio che può essere interrotto soltanto da una chiamata telefonica, la quale recita così, seppur non letteralmente: “Vitello dove cazzo sei? ha ucciso ancora, qui è un bagno di sangue”.

L’irrimediabile disperazione del Vitello interpretato da un Filippo Timi mai così definitivamente cupo e brutale, che soltanto nei primissimi minuti dell’episodio d’apertura di Dostoevskij, rigurgita a favor di camera, tutte quelle pillole che avrebbero dovuto porre fine al suo calvario, rappresenta in qualche modo, neppure troppo sottilmente, un avvertimento destinato allo spettatore, rispetto al male e poi al dolore, che non ancora sopraggiunti, quasi certamente segneranno la sua memoria, così come quella dei personaggi che Dostoevskij, non soltanto racconta, piuttosto analizza, sezionandoli, giungendo fino all’osso, senza alcuna pietà.

Dostoevskij - recensione della serie Sky Original dei fratelli D’Innocenzo

Lettere della – e sulla – morte, tra i non luoghi della solitudine e del dolore

Quella che i D’Innocenzo – e così Vitello – osservano, è un’Italia di non luoghi, composta da un insieme di strade solitarie, sporche e deturpate. Allo stesso modo, sono in rovina, dunque cupe e da tempo abbandonate, perfino le centrali di polizia, nelle quali sembra essere presente quell’unico barlume di vita, dovuto forse all’indagine sul poeta assassino Dostoevskij, oppure al fatto che il lavoro, sia spesso capace di seppellire, o momentaneamente mettere a tacere, memoria e ricordi, che rappresentano per l’uomo, i nemici più temibili, spietati e autodistruttivi.

Ed è curioso che tutto stia crollando, che tutto sia così irrimediabilmente sprofondato nella solitudine e nella disgrazia, a partire dagli scenari, fino ai personaggi che li vivono.

Dostoevskij uccide. Nel corso degli episodi, non ci vengono infatti risparmiate brutali istantanee raffiguranti corpi di bambini, adulti, uomini e donne dilaniati, insanguinati, oppure apparentemente addormentati, seppur morti, per mano violenta e mai realmente rintracciabile. Ma ancor prima di uccidere, e forse in qualche caso, anche in seguito, Dostoevskij scrive, racconta e confessa, lasciando sui luoghi del delitto, perfino sé stesso, tra le righe di una lunga serie di lettere dalla lucidità e così dalla solitudine e dalla disperazione, realmente lacerante, destinate a dialogare, tanto con la morte, quanto con Vitello, fin dal principio connessi.

La fotografia granulosa e in qualche modo carnale e concreta, che tutto deve alla volontà registica degli abili D’Innocenzo, nel girare Dostoevskij in pellicola 16mm, restituisce allo spettatore un realismo ed un’immediatezza profondi a tal punto, da sconfinare nel documentarismo, permettendo di percepire il dolore fisico dei corpi degli interpreti e così quello psicologico, fino all’estremo, fino al livello più decisivo, dunque al desiderio che il male possa finire il più presto possibile, salvando chi può salvarsi, e uccidendo chi invece, restando vivo, non potrà che continuare a perdersi e crollare.

Filippo Timi e Carlotta Gamba, non per un discorso di protagonismo, quanto per uno di eccellenza, vivono di una luce differente – e di un buio – rispetto a tutti gli altri interpreti, negli scomodi, squallidi e disperati abiti di un padre e una figlia, che in modo differente hanno subito le conseguenze dell’abbandono e della solitudine, restando impressi in quella memoria solidissima e definitiva, che non si limita unicamente alla visione dello spettatore – necessariamente ripetuta -, piuttosto a quella storica, propria del nostro linguaggio e forma cinema, oltreché televisiva, dialogando, meglio e più di ogni altra opera precedente dei D’Innocenzo, con lo scenario internazionale.

Dostoevskij: valutazione e conclusione

È certo che molti guarderanno a Dostoevskij come ad una semplice rilettura in chiave italica, della prima stagione di True Detective, quella più cupa ed esoterica, non a torto, seppur commettendo un errore di leggerezza decisamente importante, superficiale e cocciutamente convinto di non voler raggiungere alcuna lettura secondaria di un prodotto seriale, o meglio, di un lungo film della durata di cinque ore, che di riflessioni ne avanza anche fin troppe, permettendo a ciascuno spettatore di raggiungere le proprie risposte e considerazioni, immergendosi fin nel profondo del vissuto individuale e così del passato e di tutti quei traumi che non abbiamo mai realmente superato.

I protagonisti, così come i personaggi secondari di Dostoevskij, sono anime cupe, macchiate dal peso della colpa, della solitudine e dagli strascichi emotivi e fisici di una vita passata che non smette mai realmente, di riflettersi su quella del presente, e così su quella futura, dando vita a molto più che scontati antieroi, piuttosto a uomini e donne che nulla hanno da perdere, perciò temibili, violenti e spietati come solo chi ha già guardato la morte negli occhi, sa essere.

Immaginate dunque, perché di True Detective prima stagione c’è molto, quel modello di narrazione, filtrato dallo sguardo di tre autori estremamente differenti tra loro, come David Fincher – impensabile non tornare con la mente a Zodiac e Millennium: Uomini che odiano le donne –, i fratelli Dardenne e Nuri Bilge CeylanC’era una volta in Anatolia e l’indagine esistenzialista sul crimine e sull’uomo -, il tutto, scaturito dal gusto registico dei fratelli D’Innocenzo, cui va detto fin da ora, grazie.

Dostoevskij è respingente, brutale e disperata e ha ciò che al noir è sempre mancato, la volontà di non essere mai consolatoria, raggiungendo il male, fin nel profondo.

Regia - 4.5
Sceneggiatura - 4.5
Fotografia - 4.5
Recitazione - 4.5
Sonoro - 4.5
Emozione - 4.5

4.5

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