Caccia ai killer: recensione della docu-serie Netflix

La recensione della prima stagione della nuova docu-serie true-crime targata Netflix. Quattro episodi per rievocare dal punto di vista degli investigatori la caccia ai famigerati Green River Killer, Aileen Wuornos e Happy Face Killer. Disponibile dal 5 novembre. 

La figura del serial killer, indipendentemente che sia esistito oppure no, ha sempre destato un fortissimo interesse nello spettatore cinematografico e televisivo.  Sarà il fascino irresistibile del male, ma di fatto la letteratura sull’argomento, così come la cronaca nera dalla quale attingere, è vastissima. Si tratta di un pozzo inesauribile dal quale attingere, perché quando si chiamano in causa gli omicidi seriali all’orrore non c’è mai fondo. Il ché ha prodotto una galleria di profili particolarmente affollata, tanto nell’immaginario quanto nella Storia, che ha generato di riflesso un proliferare di prodotti audiovisivi incentrati su biografie o “gesta” efferate di omicida seriali più o meno noti che stanno spopolando sul grande e piccolo schermo. In particolare le docu-serie true-crime stanno imperversando sulle diverse piattaforme, tanto che mensilmente se ne rilasciano di nuove. Tra quelle approdate su Netflix nel mese di novembre (il giorno 5)  figura Caccia ai killer, una produzione britannica firmata da Nick Justin con Lydia Delmonte, Melanie Burt e Hattie Bridges Webb, per la regia a quattro mani di Robin Dashwood e Suemay Oram.

Caccia ai killer: la serie ricostruisce il lavoro investigativo di poliziotti, giornalisti e procuratori che hanno assicurato alla giustizia alcuni tra i più famigerati e violenti assassini del mondo

Caccia ai killer cinematographe.it

La serie ricostruisce il lavoro investigativo di poliziotti, giornalisti e procuratori che hanno scovato e assicurato alla giustizia alcuni tra i più famigerati e violenti assassini del mondo, autori di delitti che hanno lasciato cicatrici e ferite profonde nella memoria collettiva. Nulla di nuovo sulla carta se non fosse proprio per il punto di vista dal e attraverso il quale vengono rievocate le vicende sanguinarie chiamate in causa, che è appunto quello di detective e agenti speciali che le hanno toccate con mano. Normalmente si sceglie di partire dalla o dalle vittime di turno, oppure dal o dai carnefici, vale a dire da quei “mostri” che hanno scritto nel e con il sangue la parola fine a esistenza, seminando per anni non solo morte e sofferenza, ma anche terrore, caos e fobie collettive. Caccia ai killer invece sceglie come punto di partenza e prospettiva quella di coloro che stanno e stavano nel mezzo, ossia gli investigatori e gli inquirenti, un po’ come accaduto nella miniserie Night Stalker.

Nella prima stagione, composta da quattro episodi dalla durata variabile (dai 40 ai 35 minuti), vengono ricostruiti tre casi: Green River Killer, Aileen Wuornos e Happy Face Killer. Si tratta di biografie criminali molto note, sulle quali sono stati versati litri d’inchiostro e prodotte migliaia di immagini. Su quella della Wuornos si ricorda in particolare il film Monster con Charlize Theron e Christina Ricci, che è valso alla prima un meritatissimo Oscar come migliore attrice protagonista. Motivo per cui serviva di default qualcosa che potesse in qualche modo gettare uno sguardo inedito o quantomeno diverso sui casi in questione, che potessero suscitare un interesse nel fruitore e in grado di fare emergere dettagli importanti. E così è, peccato che non sia sufficiente a dare uno slancio e una forza tale da garantire al prodotto finale una presa sul pubblico.

Caccia ai killer: il livello di coinvolgimento è altalenante, con una salita e discesa della temperatura che muta da episodio ad episodio

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Il livello di coinvolgimento è infatti altalenante, con una salita e discesa della temperatura che muta da episodio ad episodio. Non c’è dubbio sul fatto che i due che ricostruiscono l’epopea criminale di Keith Hunter Jesperson, meglio noto come “Happy Face Killer”, il criminale che dal 1990 al 1995 ha ucciso otto donne tra la Florida, il Nebraska, la California, l’Oregon, il Wyoming e lo stato di Washington, siano quelli più efficaci e riusciti. La distanza maggiore coperta dalla timeline permette un approccio più graduale, approfondito e strutturato alla storia. Se poi ci metti una scrittura più sicura e dei colpi di scena sapientemente disseminati nell’arco del racconto, allora il risultato non può che essere degno di nota.

Non si può dire la stessa cosa dei primi due capitoli di questa antologia criminale, che a differenza dei restanti si presentano come dei paragrafi di un bignami. Anche se la confezione e il modus operandi restano gli stessi, con un largo uso di materiali d’archivio, interviste realizzate ad hoc ai protagonisti che tornano sulle scene del crimine e ricostruzioni di finzione più o meno curate nella messa in scena, qui il racconto si riduce invece a una sintesi stringata, superficiale, che ricostruisce le tappe come una mano frettolosa di vernice. Inspiegabile vista la portata e il peso specifico delle vicende rievocate. Una scelta, questa, per quanto ci riguarda infelice, che riteniamo il tallone d’Achille dell’intero progetto e che probabilmente rappresenta un vizio di forma che ritroveremo nelle stagioni successive.     

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Sonoro - 2.5
Emozione - 2

2.4

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