Atlanta – Stagione 3: recensione della serie TV Disney+

La scalata del rapper Paper Boi e del suo agente Earn verso la celebrità fa tappa in Europa, tra lussuose feste segrete e situazioni oltre i limiti del grottesco.

Sono passati 4 anni dalla conclusione della seconda stagione di Atlanta. Un lasso di tempo massiccio, in cui il pubblico si è chiesto se la serie avrebbe mai avuto davvero un seguito, già ampiamente annunciato. Non è stato un problema di scrittura, di creatività: il nuovo ciclo di episodi – su Disney+ a partire dal 29 giugno 2022 – era già pronto nel 2020, bloccato tuttavia nella fase di post-produzione dalla pandemia di Covid. Questa, che sembra una nota a margine, denota invece un’evidenza abbastanza importante: nel mondo di Atlanta 3 non c’è traccia di virus, e Donald Trump è ancora Presidente degli Stati Uniti.

Atlanta - Cinematographe.it

A mancare è anche un riferimento alla morte di George Floyd, avvenuta per mano della polizia di Minneapolis nel maggio del 2020 (quindi dopo la fine delle riprese) e da allora motivo di dibattito per inevitabili questioni razziali e di abuso di potere. Tutto è politica, e Atlanta di certo non è da meno: l’intento dell’ideatore Donald Glover (anche cantante, con lo pseudonimo Childish Gambino) è quello di raccontare con i toni della commedia le storture presenti nel suo Paese, le discriminazioni a cui sono soggetti gli afroamericani e la lotta per emergere in un mondo dominato dai bianchi, che considerano i loro privilegi di nascita un fatto naturale.

Atlanta 3: cambiare tutto, affinché tutto resti uguale

C’è un enorme, potente sarcasmo in Atlanta, fin dalle prime battute della prima stagione. Tutto ruota attorno a un quartetto di personaggi che, dalla città di Atlanta, tenta la scalata verso la celebrità grazie all’hip hop. Ognuno a modo suo: Al “Paper Boi” è il rapper, Earn è il suo agente (nonché suo cugino), Darius segue il duo in giro per l’America e Vanessa è l’ex compagna di Earn, alla ricerca di un suo specifico ruolo. La natura delle loro (dis)avventure intreccia due percorsi: da una parte c’è la risata pura, che attinge a piene mani dall’ambiente eccentrico ed eclettico della città; dall’altro c’è l’inquietudine, la rappresentazione a volte persino orrorifica di un universo in cui i protagonisti sono totali outsider.

La loro estraneità deriva dalle continue storture che gli si parano davanti, dal fatto che nulla segua uno straccio di logica. La terza stagione mostra se possibile una ulteriore evoluzione di questo percorso: per la prima volta infatti il gruppo è all’estero, lontano quindi dalla familiarità dei quartieri di appartenenza e delle comfort zone. Earn & Co. giocano “fuori casa”, seguendo le tappe di una tournée che li porterà tra l’altro a Copenaghen, Amsterdam e Budapest. L’Europa, vista come territorio “straniero”, porta un cambiamento essenziale nelle dinamiche della serie, e dimostra come cambiando tutto, tutto resti uguale: l’anti-blackness, il bigottismo e il razzismo non crescono solo in America, sono malattie internazionali.

Il problema di essere bianchi è che… ti acceca”

I fan della prima ora non resteranno particolarmente colpiti dall’incedere di queste nuove 10 puntate, piene di fuoriprogramma narrativi e in continua oscillazione tra linearità e spinta grottesca. Atlanta continua a distruggere la logica percepita del territorio televisivo: il primo episodio, Three Slaps, è ad esempio una sorta di digressione che racchiude il concept dell’intera stagione, un racconto esemplare che esamina il superamento dei confini razziali. Un’allegoria che, prendendo spunto da un fatto realmente accaduto, spiega il pericolo che le istituzioni bianche rappresentano per gli afroamericani. Le puntate successive seguiranno questa falsariga: più Earn, Al, Darius e Van salgono in alto, più si avvicinano ai pericoli surreali della whiteness e della ricchezza.

Tra blackface camuffate da folklore olandese, ricche feste segrete, conferenze stampa all’insegna dell’All Live Matters e cene cannibali, l’interrogativo che si fa strada riguarda il perseguimento del capitalismo, da un’ottica nera: ha senso porsi questo obiettivo, quando la definizione stessa del termine richiede che si acquisisca potere attraverso mezzi suprematisti? Nelle sue assurdità, nelle sue bizzarre epifanie e nelle sue rivelazioni, Atlanta resta un prodotto essenziale per comprendere la contemporaneità americana e non, un progetto che supera di slancio la semplice logica della serialità. Si può ridere (e lo si fa di gusto, la satira e il cinismo sono irresistibili), ci si può indignare, si può riflettere; il materiale è denso e incandescente, e il fatto che finalmente possa raggiungere anche in Italia una maggiore visibilità – grazie a Disney – è un evento tanto inatteso quanto felice.

Regia - 4
Sceneggiatura - 5
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 3

4