Editoriale | Perché Strappare lungo i bordi è il grido malinconicamente ironico di una generazione

Strappare lungo i bordi è molto più di una piacevolissima serie animata: è la sintesi di un pensiero e di un disagio che accomuna una generazione intera.

Strappare lungo i bordi, la prima serie animata scritta e diretta da Zerocalcare, va a intrufolarsi alla perfezione in quel parco delle meraviglie in cui la serialità e la cinematografia contemporanea sono soliti rifugiarsi; Netflix si manifesta come il canale ideale a ospitare le paturnie di un artista che ha passato la sua vita a sporcarsi le mani di grafite, disegnando un mondo sempre all’altezza della realtà: semplice, onesto, leggero quanto basta a sollevarci del peso del mondo sulle spalle. E dopo aver strisciato tra le edicole e il web, dando il suo contributo anche al cinema, Michele Rech riesce nell’impresa di sintetizzare in sei episodi, della durata complessiva di un film, il grido silenzioso di una generazione nata giovane ma già vecchia, destinata alla precarietà, prima e ultima superstite di un tempo che talvolta sembra essere esistito solo per loro, per noi: i nati in quel frangente storico su cui il resto della società ha semplicemente “messo una pezza”, facendoci sentire come un istmo di terra posto a congiunzione tra due modi di fare, vivere, studiare, lavorare così vicini eppure così distanti.

Strappare lungo i bordi: così Zerocalcare riassume una generazione, senza cadere nell’autocommiserazione

Zerocalcare si fa portavoce di quella generazione nata negli anni ’80, condividendo (forse inconsapevolmente) codici e ideologie dalle sfumature pop e scaraventandocele addosso con quella malinconia amara ma colorata che lo contraddistingue. Strappare lungo i bordi si rivela, anche sotto questo punto di vista, come una favola sociale in cui entrano di diritto “reperti storici” come msn e convenzioni popolari come l’invio compulsivo di curriculum, tradotte magnificamente nel disagio di esistere e di non avere nessuna linea da seguire, nessuna briciola lasciata lungo quel percorso fatto di idealismi e finto benessere pronta a segnare la via maestra.
Un tragitto in cui entrano di diritto i flashback di Zerocalcare: raffigurazioni impeccabili di ciò che significava essere bambini negli anni 90′, con tutto quel carico morale di aspettative pronte a minare una concezione di intelligenza proiettata unicamente sui libri. Per farci cosa poi? Le ripetizioni, magari, e tirare a campare così fino alla soglia dei trenta, sognando un lavoro che non si sa più se lo si vuole davvero.

La bellezza di Strappare lungo i bordi, però, non sta nel disagio in sé, né negli accenni al G8 o agli effetti del capitalismo sulla gente, bensì nella maestria con cui Michele Rech sa schivare i macigni della malinconia, tirandoci addosso i detriti della sua generazione, ma alleggerendo il colpo con un paracadute di ironia. È con l’uso del dialetto, di topoi specifici ma condivisi e col contributo dei suoi fedeli amici di viaggio – posti a rappresentare le sentinelle dell’io in tutte le sue sfaccettature – che l’autore ci immette in quella landa distopica della sua anima, in un tempo rimasto immobile e che però di colpo ha fatto un balzo in avanti, disintegrando il passato e il presente, sintetizzando quell’idea di perdita, di lutto, che nella serie Netflix si ha quasi l’impressione che possa essere condivisa e tirata fuori, catartizzata. E invece resta lì, nell’intimo individuale di una generazione che della precarietà ha fatto forse un punto di forza, rimanendo in bilico in un tempo che scorre velocissimo, impulsivo, feroce.

Ci hanno insegnato ad andare piano e a strappare lungo i bordi (a seguire una strada ben definita, insomma), ma Zero, Sarah e Secco quei bordi li hanno oltrepassati, pasticciati. Loro sono finiti ai margini, in un non-luogo inquieto fatto di debolezze, ricordi e convenzioni, in cui però alla fine c’è sempre spazio per un po’ di gelato e per assaporare la consapevolezza che, in fondo, siamo solo un filo d’erba e, se ci pensi, è davvero meraviglioso.