Bridgerton e il piacere femminile nella serie Netflix tra masturbazione, sesso ed emancipazione

Bridgerton, la serie TV Netflix 'sensazione' della stagione invernale, si presta alla lettura di genere e offre numerosi spunti per riflettere intorno alla rappresentazione della sessualità femminile.

Preceduta da un massiccio battage pubblicitario, annunciata già da un paio di anni ed attesa soprattutto dai lettori dell’omonima saga di Julia Quinn, romanziera statunitense specializzata nel romance, Bridgerton, (QUI la nostra recensione) la serie tv creata da Chris Van Dusen e prodotta da Shonda Rhimes (showrunner di Grey’s Anatomy e di Scandal, se ci fosse bisogno di presentazioni), è entrata ‘di prepotenza’ nel catalogo Netflix il giorno di Natale, e, come ci si aspettava, sta facendo parlare molto di sé. 

Non serve ricostruire la trama troppo nel dettaglio: l’unica stagione finora disponibile agli abbonati è l’adattamento televisivo del primo degli otto romanzi della saga dal titolo  Il duca ed io (in Italia edito da Mondadori), incentrato sulle vicende di Daphne, la prima dei Bridgerton (in totale otto tra fratelli e sorelle) a sposarsi.

Siamo nell’alta società londinese, all’epoca definita dagli storici Età della Reggenza, più precisamente nel 1813: al trono c’è Giorgio IV, figlio e reggente di Giorgio III, monarca che perse tredici colonie americane e cadde vittima della follia a causa dell’aggravarsi della porfiria, malattia di cui soffriva. Giorgio III aveva sposato la tedesca Charlotte di Mecklenburg-Strelitz, meticcia birazziale discendente dall’amore ‘proibito’ tra Alfonso III e una concubina portoghese. 

In Bridgerton l’arte della finzione corregge la Storia: la regina è mulatta e tra neri e bianchi non vi è disparità

Adjoa Andoh (Lady Danbury) e Reg-Jean Page (Simon Basset, duca d’Hastings) in una scena di ‘Bridgerton’

Uno degli aspetti meritori della serie è quello di aver integrato al cast, mediante l’ibridazione tra period drama e ucronia, numerosi attori di colore, giustificando la loro presenza nella storia attraverso lo sdoganamento attuato dal re, innamorato di una mulatta, della pari dignità della ‘razza’ caucasica e di quella nera. La realtà dei fatti è, come sappiamo, ben diversa, ma Bridgerton non procede alla ricostruzione pedissequa, ma ‘corregge’ in senso tanto favolistico quanto pop la Storia alla luce delle sue rispondenze nel presente.  

È, però, un’altra la rivoluzione di cui la serie si fa portatrice e che riguarda soprattutto la rappresentazione della sessualità femminile. Se già il romanzo di Julia Quinn non lesina descrizioni di amplessi appassionati, la serie tv traghetta la fonte verso una maggiore consapevolezza del ribaltamento di prospettiva nella presentazione delle dinamiche che regolano i rapporti di genere. Partiamo da un dato: in Bridgerton sono i personaggi maschili, non quelli femminili, a essere ‘oggettificati’ sessualmente. 

Tutti i protagonisti maschili – da Simon, Duca di Hastings, ai fratelli Bridgerton in età da matrimonio – sono belli e prestanti. È vero che il sex appeal è un elemento indeterminabile su un piano di oggettività, ma si può certamente osservare, senza timore di smentita, che dei personaggi maschili della serie viene sempre e comunque sottolineata l’appetibilità sessuale. I personaggi femminili principali sono, invece, costruiti in modo tale che siano i tratti caratteriali e intellettivi a risaltare su quelli estetici. 

I personaggi maschili sono sessualmente ‘oggettificati’, quelli femminili liberati da uno sguardo  erotizzante

Eloise (Claudia Jessie) e Penelope (Nicola Mary Coughlan), amiche inseparabili e irriducibili ‘pettegole’

Quando la regina vede per la prima volta Daphne, la definisce flawless, priva di difetti. Il “diamante della stagione” (come ribattezzata dalla penna velenosa della gossip girl Lady Whistledown) è una ragazza comune, né brutta né bella. Non è importante che abbia l’incarnato di pesca o gli occhi da cerbiatta. E mai si fa riferimento a una sua effettiva aderenza a un canone estetico.

Di Daphne lo spettatore è portato a seguire l’emancipazione dal nido, di lei impara a conoscere, episodio dopo episodio, il temperamento, la fermezza, l’intelligenza concreta, meno ‘ideologica’ rispetto a quella della sorella minore Eloise, intrappolata, quest’ultima, nella narrazione famigliare – e, di conseguenza, sua propria – che la vuole ‘mente’ della famiglia, tutto fervore intellettuale e zero anelito domestico o anche solo affettivo.

Bridgerton non ha certo inventato nulla: già le eroine di Jane Austen erano così. Delle ragazze normali, anzi “appena passabili”,  per citare il Mr. Darcy di Matthew Macfadyen, che alla fine riuscivano a conquistare lo scapolo più ambito grazie alla loro arguzia o sensibilità, grazie a doti intellettive o, per così dire, spirituali. Le eroine di Bridgertonhanno dalla loro un pragmatismo che manca alla matrice austeniana, una naturale inclinazione ad agire, a volersi sottrarre a una posizione di passività anche sessuale.

La protagonista femminile Daphne, determinata a vivere a pieno la sua sessualità

La protagonista Daphne, figlia dei Visconti di Bridgerton, interpretata da Phoebe Dynevor

Emblematica in tal senso è la scoperta del sesso da parte di Daphne, tenuta all’oscuro dalla madre di come funzionino le ‘cose dell’amore’: prima attraverso la masturbazione e poi attraverso l’esperienza diretta con un partner, comprende fino a che punto il piacere sessuale sia raggiungibile solo a patto che si rinunci a sovrapporgli tanto i codici appresi a livello culturale (il mito della passività femminile, ad esempio) quanto soprattutto i fantasmi famigliari e la loro strumentalizzazione per raggiungere finalità, consce o inconsce, di potere o di controllo non solo sull’altro ma anche su di sé.

“Lo fai perché ti piace o per dare piacere a me?”: è la domanda che, tra tutte, più risuona a visione ultimata, è quella che più resta in mezzo a un cicaleccio di suggestioni spesso trascurabili. Parafrasato: quanto di quello che facciamo a letto è dovuto e quanto è goduto? Fino a che punto quello che ci pare istintivo è, invece, viziato dai retaggi culturali o dai complessi famigliari?

Sia detto chiaro e tondo: Bridgerton non è un capolavoro e anche la rappresentazione che fa della sessualità è, in fondo, rigida, patinata, plastica, si potrebbe azzardare persino grafica nel suo implicito prestazionismo; non c’è un briciolo di verità in nessun momento. Questo è inevitabile – e da sempre programmatico nelle produzioni Netflix – quando si mostra soltanto quel che si può piegare alla didascalia, a un messaggio socialmente edificante.

I rapporti umani sono complessi e affatto ‘sanificati’, ma a Netflix quella complessità relazionale non interessa e va bene così: ciò debitamente premesso, di Bridgerton, prodotto mainstream che, sì, mette troppa carne al fuoco senza approfondire mai, si può senz’altro apprezzare la volontà di fare un passo verso il futuro, nell’abbattere quelli che, ancora oggi, resistono nella nostra società come cliché o, peggio, tabù. 

Se liberare la rappresentazione femminile da uno sguardo erotizzante e applicare quello stesso sguardo al maschile non è necessariamente né una novità né una ragione di merito, altrettanto non si può dire dello spazio narrativo dedicato, soprattutto nel contesto di un period drama, alla ‘benedizione’ e alla valorizzazione della determinazione femminile a capire e sperimentare un po’ di più tutte le possibilità d’accesso alla propria sessualità

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