Ammazzare Stanca: la recensione del film di Daniele Vicari
In Ammazzare Stanca, Daniele Vicari racconta la parabola di Antonio Zagari: un killer della ’ndrangheta che cerca redenzione nella scrittura.
È tutta una questione di sangue. Il patto di sangue che unisce gli affiliati alla ‘ndrina calabrese. Il sangue che schizza dai corpi appena freddati. Il proprio sangue, quello della famiglia. Un sangue che, più che segnare un legame indissolubile, è una catena che vincola, stringe e costringe ad ammazzare. Lui che soffre di emofobia. Ma come è scritto nel titolo del film di Daniele Vicari, Ammazzare Stanca, e lo sa bene il protagonista Antonio Zagari, interpretato da un grande Gabriel Montesi. Autobiografia di un assassino è il sottotitolo del film, tratto dal libro scritto dallo stesso Antonio Zagari: la storia di un ragazzo calabrese trapiantato al Nord che tenta di ribellarsi al suo destino criminale.
Il film uscirà nelle sale il 4 dicembre 2025 con 01 Distribution, prodotto da Mompracem, Pier Giorgio Bellocchio e Rai Cinema. Nel cast, oltre a Montesi, figurano Vinicio Marchioni, Selene Caramazza, Andrea Fuorto, Thomas Trabacchi e Rocco Papaleo.

Ammazzare Stanca: il ritorno dietro la macchina da presa di Daniele Vicari

Antonio Zagari è il figlio di un boss calabrese trapiantato nel Nord Italia. Fin da giovane impara a fare gli interessi della famiglia e, se necessario, a uccidere a sangue freddo. Anzi, diventa un killer affidabile: uccide, ma dopo ogni vittima rimangono tracce di disagio. Per lui, questa vita diventa presto insostenibile. Così Vicari (Diaz, Orlando) segue la vita di Zagari; la mdp indugia senza fare sconti, rintraccia in molti sguardi e silenzi il peso di un’esistenza precaria. Giacché parlare è impossibile, soprattutto davanti a un padre — un boss spietato, Giacomo Zagari (Vinicio Marchioni) — sordo dinanzi alle esigenze dei propri figli. Per Giacomo, il carattere instabile dei figli e la loro inflessione dialettale dovuta all’essere nati e cresciuti al Nord è un marchio di fragilità, una crepa nell’integrità della famiglia. Proprio quella famiglia che è sacra, vincolata e sigillata da patti di sangue figli di tradizioni millenarie, ma che, al primo scossone, può vacillare senza esitazioni.
Ma è proprio quel modo di vivere che Zagari non sopporta più: così, dopo essere finito in galera a metà degli anni ’70, trova rifugio nella scrittura. Obbligato entro quattro mura, Antonio si rifugia nell’inchiostro come forma di evasione e di ribellione. Scrive tutto, annota nei minimi dettagli — anche i più feroci — gli omicidi compiuti nel corso della sua vita. Affida a una comune penna biro le frustrazioni e i drammi di un’esistenza ormai segnata. Uno degli aspetti più interessanti del film emerge proprio dalla parabola drammatica di Zagari. Anche una volta uscito di prigione, la sensazione di essere costantemente in pericolo — dai rivali criminali o dalla polizia — costringe chi sceglie la strada criminale a una vita precaria, sempre sull’orlo del precipizio.
La vita criminale di Antonio Zagari
Lo sguardo di Daniele Vicari, infatti, non assolve né condanna. Lascia che siano le scelte di Zagari a parlare: spesso azioni vili, meschine, sotterfugi per (re)sistere. Anche l’amore nella vita di Antonio è un amore incapace di essere libero. Si sposa con Angela Rallo (Selene Caramazza), da cui ha un figlio, ma Zagari non può godere del focolare domestico. Dorme con la pistola accanto, pronto a scappare come un topo in trappola. Le donne della famiglia sono costrette a un ruolo di spettatrici: madri e figlie tratteggiate da Vicari per lo più come presenze silenziose, che si limitano a dire “sono cose da uomini”. E basta. Come a segnare un perimetro invalicabile, uno spazio in cui non è possibile entrare.
E anche se Angela, all’inizio del film, sembra voler emanciparsi da questa condizione di subalternità — laureandosi ed esercitando la professione di medico — finisce per soccombere, per accettare la via del focolare domestico. Una madre e moglie pronta ad assecondare il marito in ogni sua fuga. E forse qui risiede il limite più evidente del film: fino a che punto Zagari è disposto a lasciare quella vita? È possibile cambiare rotta e abdicare a tutto ciò che si è stati?
I fratelli Zagari, Antonio ed Enzo (Andrea Fuorto), quanto sono vittime e quanto carnefici? È proprio in quella zona liminale che Vicari, attraverso la biografia di Zagari, vuole indagare — forse senza riuscire a fornire risposte del tutto convincenti. Ma non è quello il punto. Ammazzare Stanca vuole raccontare personaggi in fase di disfacimento: esseri criminali che desiderano essere altro, ma che non ci riescono del tutto. Tale è viscosa la ‘ndrangheta, che si appiccica alle vite di Antonio ed Enzo e tenta di trascinarli a fondo con sé.
Ammazzare Stanca: valutazione e conclusione

La sensazione, tuttavia, è che non si riesca a comprendere fino in fondo il cambiamento di Zagari. Fino a dove è disposto a spingersi pur di rinunciare a tutto? In questo, la regia di Vicari non affonda del tutto il colpo, lasciando forse troppo spazio all’incertezza e rischiando di non mettere in scena pienamente la redenzione del protagonista. Di certo, Zagari non è un collaboratore di giustizia: è un criminale che, quando tutto gli sta per crollare addosso, sceglie di redimersi, di “levarsi il sangue di dosso”. Ma non è chiaro se per reale consapevolezza o per calcolo.