Mara Fondacaro: Il primo figlio racconta “la maternità imperfetta e difficile”

La nostra intervista a Mara Fondacaro, al cinema con Il primo figlio dal 27 novembre 2025.

Il primo figlio, esordio alla regia di Mara Fondacaro, distribuito da Lo Scrittoio e Nightswim, arriva nei cinema il 27 novembre 2025. Il film – un intenso dramma dalle sfumature horror – è stato presentato lo scorso giugno alla 61ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Opera con cui l’autrice si è aggiudicata nel 2023 il Premio SIAE Cinema per giovani sceneggiatori nell’ambito della Festa del Cinema di Roma. Scritta da Fondacaro insieme a Giuditta Avossa affronta i temi della maternità, del lutto e della paura attraverso una storia che ha per protagonisti Ada (Benedetta Cimatti) e il compagno Rino (Simone Liberati), che aspettano il loro secondo figlio. Intanto la donna si ritrova a fare i conti con un dolore mai superato: la perdita prematura del primogenito. Mentre cerca di mostrarsi serena è sconvolta dall’apparizione del figlio defunto (la protagonista comincia a convincersi che sia tornato dall’aldilà per impedire la nuova nascita).

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La nostra intervista a Mara Fondacaro, regista de Il primo figlio – film attraverso il quale la regista si confronta con il desiderio di maternità e una grave perdita, attraversando il genere horror

Gli attori Benedetta Cimatti e Simone Liberati

Perché ha deciso di girare film e quali sono i suoi autori di riferimento?
“Ho sempre avuto una fervida immaginazione fin da piccola. Ricordo quando mio nonno mi faceva vedere con lui, in continuazione, Il Padrino, C’era una volta in America e… Pretty Woman, i suoi film preferiti. Oppure quando, da bambina, non avendo molti accessori originali delle Barbie perché troppo costosi, costruivo le mie “città delle Barbie” usando le VHS come stanze o palazzi, i pacchetti di fazzoletti come lettini per le Barbie bambine, le scatole dei medicinali come tavolini, e così via. Insomma, fin da piccola ho capito che mi piaceva costruire storie.  Crescendo, mi sono resa conto che ciò che più amavo del cinema era la sua capacità di provocare emozioni forti. L’arte in generale ha questo potere, certo, ma secondo me nulla fa ridere, piangere o commuovere come un film. È questo il motivo principale per cui ho deciso di fare cinema: volevo avere la possibilità di suscitare emozioni così potenti attraverso immagini create da me. I miei autori di riferimento sono molti e sono cambiati nel corso degli anni. Ho attraversato diversi periodi, con registi anche molto diversi tra loro. Al momento, per il tipo di film che ho realizzato, mi viene spontaneo citare Mike Flanagan, Roman Polanski e Jennifer Kent“.

Insegna a scuola. Crede che il cinema, con la sua forza narrativa e visiva, sia uno strumento efficace per lasciare un segno negli studenti? È adeguatamente valorizzato nella scuola italiana?
“Assolutamente sì. Anche se i tempi sono cambiati e i contenuti multimediali sono sempre più presenti, sono convinta che il cinema abbia ancora una forza enorme. Tuttavia, credo che nella scuola italiana sia poco valorizzato: oggi il suo spazio è quasi nullo. Secondo me bisognerebbe introdurre alcune ore di cinema già nelle scuole primarie, far vedere film interi ai preadolescenti e insegnare loro ad analizzarli. Il cinema potrebbe così ritrovare la sua forza originaria. È fondamentale creare una coscienza critica, dare agli studenti gli strumenti per interpretare ciò che li circonda, soprattutto in un’epoca in cui siamo sommersi da immagini di cui spesso non conosciamo neppure la provenienza o la veridicità”. 

La regista su Il primo figlio: “la maternità che racconto è lontana dall’idea rassicurante e perfetta. Ho scelto questo genere perché mi permetteva di raccontare il dolore più indicibile

E oggi ha la possibilità di creare il suo spazio con Il primo figlio: un film su “una maternità dalle sfumature horror”, come mai?
“Il mio intento era quello di realizzare un film che non desse risposte, ma ponesse domande. Mi piaceva l’idea di un’opera che non lasciasse indifferente lo spettatore: un film che ti porti dentro quando esci dalla sala, e non uno di quelli che dimentichi appena rientri a casa. La maternità che racconto è lontana dall’idea rassicurante e perfetta: è una maternità sgangherata, imperfetta, difficile. Credo che nel 2025 siamo finalmente pronti a riconoscere che la maternità non è soltanto un momento felice, appagante e totalizzante. Può essere anche tortuosa, piena di ostacoli, non lineare. Mi piaceva l’idea di dire alle donne: è ok provare certi sentimenti; la famiglia Mulino Bianco non esiste; la retorica del -è-tutto-bellissimo- va scardinata. Ho scelto il genere perché mi permetteva di raccontare il dolore più indicibile. Senza l’horror sarebbe stato, paradossalmente, molto più difficile da reggere. Ci sono cose talmente disturbanti che a volte solo il soprannaturale permette di affrontarle”.

In realtà il film affronta diverse paure: non solo la maternità, ma anche il lutto, il buio e gli spazi chiusi…
“Sì, perché io sono una persona molto paurosa. Ho paura di tante cose e, quando qualcosa mi spaventa, entro in uno stato di allerta tale che finisco per aver paura di tutto. Ho voluto trasmettere ad Ada proprio questa sensazione: una paura che si alimenta di altra paura. Quello che vive Ada è un incubo. E cosa fa più paura di un incubo? Nel film ci sono molte paure, ma il mio intento è quello di esorcizzarle il più possibile”.

La retorica del è-tutto-bellissimo- va scardinata. Mi piace l’idea che ci si possa riconoscere in personaggi che portano con sé fragilità reali. L’immersione in un racconto oscuro mi permette di entrare più in contatto con la parte più profonda di me stessa”

Com’è nata la storia de Il primo figlio?
“L’idea de Il primo figlio è nata da un sogno ricorrente che facevo: partorire un serpente nero. Questo incubo mi è rimasto addosso per molto tempo, e ho capito che andava approfondito. Da lì sono arrivate le immagini del lago, del bambino… e poi è arrivata Ada. Ho realizzato che avevo io stessa paure personali legate alla maternità. Tutte queste suggestioni, una dopo l’altra, sono diventate una storia”.

Pensa che le storie cupe scavino più a fondo nell’animo umano?
“Non so se in generale siano quelle che scavano più a fondo nell’animo umano, ma lo sono per me, almeno in questo momento della mia vita. L’immersione in un racconto oscuro, torbido, mi permette di entrare maggiormente in contatto con la parte più profonda di me stessa. In fondo funziona così anche nella vita: conosciamo davvero qualcuno quando impariamo ad accettarne i difetti più profondi. Siamo esseri inquieti — o almeno, io lo sono — e mi piace che altre persone altrettanto inquiete possano riconoscersi in personaggi che sbagliano, cadono e portano con sé fragilità reali