Il mio nome è Nevenka: recensione del film di Icíar Bollaín
La storia vera della prima donna spagnola ad aver denunciato un politico per molestie sessuali sul lavoro in un film necessario. Da vedere!
Nevenka Fernández, forza e coraggio. Una donna che ha saputo trovare la propria voce mentre la paura la stava mangiando dentro. Lei, praticamente sola, di fronte a tutti, addirittura di fronte alla sua famiglia, è stata capace di sopportare la gogna mediatica per aver denunciato il sindaco di Ponferrada, Ismael Álvarez, che l’ha molestata da quando è diventata consigliera comunale. Il mio nome è Nevenka di Icíar Bollaín – presentato in anteprima italiana a La Nueva Ola-Festival del cinema spagnolo e latinoamericano – racconta l’inferno vissuto dalla giovane donna, interpretata da Mireia Oriol, che si è trovata ingabbiata tra le braccia di quell’uomo, interpretato da Urko Olazabal, che le ha fatto credere di potersi fidare di lui, di avere un amico, invece bastano pochi istanti per entrare in un gorgo di paura, sottomissione e ansia.
Il mio nome è Nevenka è al cinema dal 20 novembre 2025 con Exit Media, in collaborazione con Una, nessuna centomila, WIFT&M – Women in film, television & Media Italia e Mujeres nel cinema.
Il mio nome è Nevenka: il racconto rigoroso della violenza subita da Nevenka

Il film si apre con la sensazione di angoscia con cui Nevenka vive. Imbarazzo, tremore, spaesamento. Il legale è onesto, non sarà facile condurre una causa contro un politico, e le consiglia di farsi seguire da una figura apposita, uno psicoterapeuta. Lo spettatore viene poi catapultato immediatamente nel rapporto di Nevenka e Ismael fin dagli inizi della loro conoscenza.
Álvarez: “nella lista sarai tra il numero 3 e il numero 5”
Nevenka è giovane, piena di vita, ha voglia di imparare, di intraprendere un nuovo viaggio, tornando a casa dopo il trasferimento a Madrid. Ismael Álvarez è un uomo carismatico come spesso capita con i manipolatori, indossa la maschera del sensibile, così la plagia, la compra con stima e amicizia – “per noi contano le persone” -, le fa credere che di lui si può fidare. Lei, laureata in economia, è una neofita della politica e le affida uno degli incarichi più prestigiosi, quello relativo all’economia e alla finanza. Sono come lame gli occhi della squadra di governo quando il sindaco elenca i nuovi ruoli, come se in qualche modo sapessero cosa stesse ad indicare. Lei, ovviamente, accetta, chi non lo farebbe, un ruolo di prestigio, una nuova avventura per imparare cose nuove e mettere a frutto le competenze che lei ha, Álvarez, ha la fama di donnaiolo, seppure appare come affidabile anche perché conosce la famiglia della donna. Ben presto però la simpatia, la vicinanza tra i due diventa, da parte dell’uomo fin troppo insistente e Nevenka inizia a ritrarsi perché si sente a disagio.
Ismael non accetta rifiuti – NON ACCETTARE IL RIFIUTO -, lui vuole esserci nella vita di lei, vuole avere il timone della loro relazione e decidere della vita di lei. Lei dice “no”, lui continua. Lei vuole ricalibrare il rapporto (solo amicizia), lui invece vuole toccarla, baciarla, averla, le promette, la spinge, la implora, dimostrandosi in balia della donna (“sono pazzo di te”), invece ad essere in balia di questa situazione è lei che si spegne, si perde nei vestiti, diventa trasparente, una pallida immagine rispetto a ciò che era.
Lui cambia, radicalmente, da uomo che ha estrema fiducia in lei, che le dà un’enorme possibilità, diventa nemico, un tormento che “uccide” lentamente la Nevenka di poco prima. Chiede perdono, vuole comprarla con regali e qualche bella parola, chiede scusa, ma in realtà vuole solo giocare ancora con lei. Si fa ancora brutalmente sarcastico e inizia a svalutarla (“inutile”, “figlia di puttana”), a metterla in difficoltà sul posto di lavoro, a dirle, parafrasando: guarda cosa mi fai fare, se sono così, è colpa tua – DENIGRARE E FAR SENTIRE IN COLPA LA VITTIMA. La violenza (psicologica, fisica, sessuale) cresce senza posa. Icìar Bollaìn (ha già trattato questo tema nell’opera con cui vinse il Goya, nel 2003, Ti do i miei occhi), che scrive una sceneggiatura (lavora assieme a Isa Campo) intensa e rigorosa che non spettacolarizza nulla e dirige bene i suoi attori sensibili, vuole far rivivere le emozioni della donna e cogliere le varie sfumature della violenza e la manipolazione.
Una donna coraggiosa e forte che, nonostante tutto, resiste

Nevenka: “Io sono Nevenka”
La giovane lo dice e lo ripete mentre lui la umilia, la stringe a sé. Il politico, sensibile e pigmalione che comprende le sue potenzialità, l’amico e uomo con cui lei ha avuto una relazione perde la maschera è si mostra per quello che è: un plagiatore duro e spietato, un padrone più che un capo. Queste parole sono un urlo di dolore, una richiesta di essere considerata persona, non una cosa, non un semplice corpo desiderato. Nevenka è una resistente, una che ha paura di raccontare molestie sessuali, chiamate e i messaggi ossessivi, sguardi morbosi, parole inaccettabili perché sa che non verrebbe creduta. “Quenqui, Quenquita” (il nomignolo con cui la chiamavano le persone a lei vicina) sussurra Ismael, sempre più abietto, mentre lei vuole lasciare il suo ruolo e andarsene più lontano possibile da lui. Le spire del leader del partito popolare, amatissimo dalla stampa, sono sempre più strette a lei che è completamente persa, confusa – pensiamo al momento in cui la donna viene portata con l’inganno in albergo e il pubblico comprende chiaramente il suo stato d’animo: le orecchie ovattate, lo spaesamento provato -, conscia di essere da sola.
Fino ad un certo punto la giovane si sente responsabile, pensa di aver fatto qualcosa, di aver dato un motivo all’uomo di approfittarsi di lei, di usarla a suo piacimento, crede che aver avuto una relazione intima con lui sia una colpa; è chiaro dunque quanto lavoro ci sia ancora da fare.
Nel momento in cui parla con i genitori, Nevenka non si sente compresa. Il padre e la madre prima le chiedono di resistere, di non lasciare il lavoro, di non salutarlo, di non fare nulla, mettono in atto quella che viene definita “vittimizzazione secondaria”, una dei motivi più dolorosi per cui le donne non denunciano, proprio per il timore del giudizio degli altri e la paura di non essere credute. Tale situazione è ancora più insopportabile quando Nevenka, di fronte ai giornalisti e poi in tribunale, viene incalzata con domande disumane che la rendono ancora vittima.
“Se c’è stata una relazione, come può esserci una violenza?”
Questa è solo la prima delle domande che le pongono, conficcando la lama ancor di più nella carne. I titoli dei telegiornali sono contro di lei (sottolineano che lei ha una laurea, un master, come fa a farsi molestare?), addirittura i suoi colleghi e le sue colleghe sono armi azionate contro Nevenka. Dopo la denuncia per Nevenka, marchiata da una lettera scarlatta, diventa impossibile vivere, trovare lavoro, avere rapporti con gli altri.
Il mio nome è Nevenka: valutazione e conclusione

Il film si costruisce su fonti giudiziarie, testimonianze e documenti reali, vuole ricostruire il contesto istituzionale, culturale e sociale in cui si sono svolti i fatti. Solo il rigore e la ricerca, possono dare una base solido per non creare un’opera che spettacolarizza un evento tragico che già di per sé porta dolore e strazio. La storia di Nevenka è una storia vera a cui si deve il giusto rispetto, e questo il film di Bollaín lo fa, si percepisce la profonda stima per la prima donna spagnola che nel 2001 ha denunciato un uomo politico, anticipando ciò che succederà anni dopo, in America, con il movimento #metoo.
Il mio nome è Nevenka è un film necessario, importante non solo perché mostra i segnali e come si muove un manipolatore ma anche perché porta al centro il dramma della vittima. La storia di Nevenka deve essere guardata e riguardata se pensiamo che secondo l’XI Rapporto Eures 2024, in Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa. Il 26% delle donne ha subito nella vita violenze fisiche, sessuali o psicologiche dal partner (dati FRA, EIGE, Eurostat, 2024). Nel 2023 oltre 60.000 donne si sono rivolte a un centro antiviolenza (Istat 2024), e il 74% di loro non aveva autonomia economica. Le donne rappresentano il 91% delle vittime di violenza sessuale, l’81% delle persone maltrattate da familiari e conviventi, e il 74% delle vittime di atti persecutori (INPS, Rendiconto di Genere 2024). Nell’87% dei casi di femminicidio, il colpevole è il partner o l’ex partner. Queste sono donne, non solo numeri, persone con vite spezzate, dignità negate, non è un caso che “dignità” sia una delle parole che più ripete Nevenka.
Il mio nome è Nevenka è prima di tutto un atto di resistenza, un film che serve a parlare, a riflettere ancora e ancora su una tematica di cui non si parla mai abbastanza, la violenza sulle donne. Bollaín è con lei, il suo sguardo accompagna la donna nel suo calvario, si percepisce chiaramente che la regista è una donna, perché in quell’occhio cinematografico c’è sorellanza, vicinanza e partecipazione. Il film ci ricorda che ogni denuncia è un atto politico che rompe il silenzio in cui le vittime spesso sono intrappolate. Nevenka non è solo una persona, diventa la voce che parla per tutte.
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