Shelby Oaks – Il Covo del Male: recensione del film di Chris Stuckmann
Shelby Oaks - Il Covo del Male, esordio alla regia per il critico Chris Stuckmann, è un horror con tante buone idee cui manca il tempo e la possibilità di svilupparle.
Ci sono all’incirca tre film dentro Shelby Oaks – Il Covo del Male, uscita nelle sale italiane il 19 novembre 2025 per Midnight Factory: il film interessante (la prima mezz’ora), quello un po’ deludente (l’ultima ora), e il film che servirebbe come il pane, ma non c’è. Horror del tipo “formalmente fluido”, mescola found footage e messa in scena tradizionale, perturbante e shock fisici; è diretto, e scritto, dal critico cinematografico Chris Stuckmann. L’ha finanziato tramite una campagna di crowdfunding su Kickstarter nel 2022, ha cominciato a girarlo più o meno in quell’epoca – a partire da una serie di video sul paranormale realizzati in precedenza – e dopo l’ingresso di Neon Distribution nella combinazione produttiva (che comprende anche Mike Flanagan) ha completato la lavorazione con una serie di riprese aggiuntive. Shelby Oaks – Il Covo del Male ha per protagonisti Camille Sullivan, Robin Bartlett, Sarah Durn e Charlie Talbert. Compensa la scarsa originalità con una premessa notevole, ma manca di equilibrio.
Shelby Oaks – Il Covo del Male: una sorella c’è, l’altra è sparita

Found footage, e una cornice documentaristica; è così che comincia Shelby Oaks – Il Covo del Male. E se l’originalità è in difetto, basta la premessa a costruire un senso di attesa angosciante che non fa che aumentare i rimpianti per il modo piuttosto contorto e raffazzonato con cui il film, nella seconda metà, svilisce il potenziale dell’incipit. Inizia tutto con una serie di video sul paranormale realizzati da un collettivo di quattro youtuber, e il massimo interesse è per la star, Riley (Sarah Durn). La serie si chiama Paranormal Paranoids ed è anche il titolo di quella creata e diretta da Chris Stuckmann di cui il film è una sorta di ideale prosecuzione. I quattro Paranoids indagano il paranormale attirandosi l’ostilità del pubblico mainstream, che li accusa di grossolane mistificazioni della realtà a scopi pubblicitari, e coltivando una base di fan affezionati. A un certo punto spariscono nel nulla, nei pressi della città diroccata di Shelby Oaks.
Tre vengono ritrovati cadaveri. Dopo dodici anni di Riley non c’è traccia, se non uno spezzone di video che la mostra terrorizzata mentre si avventura nell’ignoto. È qui – i primi trenta minuti sono un riassunto della storia dei Paranoids – che finisce la prima versione, la migliore, di Shelby Oaks – Il Covo del Male: una paura forte, uno storytelling teso e carico di suspense, un’estetica granulosa, “sporca”, ad avvolgere i personaggi di un senso di oppressiva inquietudine. È quando Shelby Oaks – Il Covo del Male cerca di essere un horror più convenzionale, che perde slancio.
Dodici anni dopo, la vita di Mia (Camilla Sullivan), la sorella razionale di Riley, è ancora ferma al palo; non ha smesso di cercarla, ma senza esito. Un giorno un uomo (Charlie Talbert) bussa alla sua porta con una doppia sorpresa: la parte mancante del video sugli ultimi momenti documentati della vita di Riley, e una pista succosa da seguire. La pista succosa, che porterà Mia nel cuore e nel mistero della città in rovina – un luna park, una prigione, una casa nel bosco, una strana donna (Robin Bartlett) – occupa la seconda metà di Shelby Oaks – Il Covo del Male e suona un po’ come un tradimento, involontario, della premessa. Al film manca il tempo di definire le psicologie e i moventi, introdurre e perfezionare la mappa dei temi – possessione, maternità – e irrobustire la narrazione. Molto semplicemente, nella seconda metà di Shelby Oaks – Il Covo del Male le cose succedono in maniera troppo sbrigativa perché lo spettatore abbia tempo di venire a patti con storia e personaggi. C’è un vuoto, in mezzo, che squilibra tutto. E smorza la paura.
Primo e terzo atto; manca il secondo

Comincia come The Blair Witch Project al tempo di YouTube, finisce come una sorta di perversa rilettura di Rosemary’s Baby, senza nulla a tenere insieme le due metà. A livello strutturale, Shelby Oaks – Il Covo del Male è la collezione di un primo e un terzo atto con un vuoto al posto del secondo. I due che ci sono, sono entrambi promettenti, ma solo l’incipit funziona, perché non ha bisogno di niente se non di sé stesso per andare avanti. L’aggrovigliato finale paga dazio a una fretta eccessiva, che rivela la mancanza di storytelling di qualità – la verità su Riley e i quattro Paranoids si rivelerà più accessibile del previsto, rendendo poco coerenti e credibili il mistero e l’attesa degli inizi – e un lavoro lacunoso sulla psicologia dei personaggi. È un paradosso, perché se c’è una virtù in Shelby Oaks – Il Covo del Male, oltre la seduzione dei primi trenta minuti, è proprio la qualità della recitazione. La convinzione e la serietà con cui il cast, su tutti Camilla Sullivan e Sarah Durn – lei rende credibile un personaggio che è solo un’ombra in un video – riesce a riempire, fin dove è possibile, le lacune della storia. Oltre gli inciampi strutturali, va detto che Chris Stuckmann ha in sé la stoffa del valido regista d’attori.
L’impressione è che Shelby Oaks – Il Covo del Male perda per strada gran parte del suo potenziale perché non riesce a capire dove stia il succo della storia; è una questione di sguardo, di prospettiva. È la vita e la sparizione dei Paranormal Paranoids la pista calda, il film di cui il pubblico avido di sensazioni forti e la critica impaziente avevano bisogno. Non mancava niente, lì. Il gancio con l’attualità (youtuber e affini). L’ineluttabilità del mistero (Shelby Oaks e i suoi segreti). Un modo interessante di legare il passato di Riley e Camilla al fosco presente. Soprattutto, una riflessione sul rapporto tra realtà e artificio: i quattro Paranoids sono mistificatori del paranormale, come pensa la maggior parte della gente, o c’è qualcosa d’altro sotto?
Invece, Shelby Oaks – Il Covo del Male usa la premessa come antipasto per il vero mistero, che si dipana nella seconda metà della storia ma senza tempo per definirsi, e con il fantasma del film come avrebbe potuto (dovuto?) essere a incalzarlo e a togliergli brio. Shelby Oaks – Il Covo del Male è un film posseduto dall’ombra di tanti fantasmi: film solo ipotetici, film seducenti, film incompleti. È una bella lezione; non c’è nulla di originale, ma c’era modo di dare forza e vitalità a un sapore horror stagionato. La fretta e lo squilibrio hanno avuto la meglio; anche l’abitudine richiede lavoro e pazienza.
Shelby Oaks – Il Covo del Male: valutazione e conclusione
Ha il tipico difetto dell’opera prima, Shelby Oaks – Il Covo del Male: la tendenza a sovraccaricare la storia di motivi e strutture, rinunciando a quella chiarezza d’esposizione, a quella lucidità di sguardo, che avrebbero caricato di forza incendiaria e la paura e il film. Nel sovrapporre, sul corpo della stessa storia, l’ombra di due film (le due metà) senza scegliere da che parte stare, Chris Stuckmann carica Shelby Oaks – Il Covo del Male dei difetti di entrambi, e senza volerlo rinuncia a buona parte dei pregi. La premessa iniziale è un buon esempio di come un horror moderno può funzionare, anche senza un’idea originale a sorreggerlo. Il found footage, il film (documentario) nel film, creano aspettative, definiscono le coordinate della paura e abbozzano le psicologie in modo esaustivo; è un bel lavoro, in sinergia, tra Chris Stuckmann e il direttore della fotografia Andrew Scott Baird. Dura poco, ma è la cosa che funziona di più. Una buona impronta da seguire per il futuro.