Predator – Badlands: recensione del film di Dan Trachtenberg

Lei sintetica, lui Yautja; la coppia non dovrebbe funzionare, e invece funziona. Predator: Badlands, regia di Dan Trachtenberg, è un solido, avvicente, riuscito capitolo dell'omonimo franchise.

È ora di dare i numeri: nove, sette, sei. Significano molto per Predator: Badlands, regia di Dan Trachtenberg e nelle sale italiane dal 6 novembre 2025 per The Walt Disney Italia, e vanno spiegati. Servono a dare le coordinate del progetto, a capire in che tipo di corrente si inserisca il film, e a riconoscerne i meriti. Nove: è il nono capitolo dell’omonimo franchise, inaugurato dal classico del 1987 diretto da John McTiernan, protagonisti Arnold Schwarzenegger e un mostro alieno che se le danno di santa ragione in un tropicale, imprecisato altrove in America Centrale. Sette: il settimo film della serie, se escludiamo i due crossover con Alien (Alien vs. Predator 1 e 2, rispettivamente 2004 e 2007). Sei: il sesto in live action, perché c’è stato anche un film d’animazione. C’è bisogno di un altro numero, il tre. In effetti, Predator: Badlands è il terzo film della saga diretto da Dan Trachtenberg, dopo Prey (2022) e l’animato Predator – Killer dei Killer (2025). Il regista americano, anche sceneggiatore insieme a Patrick Aison, conosce il franchise, le sue potenzialità e le strade cieche. Dopo quasi quarant’anni – e un certo numero di esperienze fallimentari a seguire il fortunato capostipite – forse è arrivato il momento di risalire la china. Cast: Elle Fanning e Dimitrius Schuster-Koloamatangi.

Predator – Badlands: lo Yautja e la sintetica, la coppia che non ti aspetti

Predator: Badlands cinematographe.it

Se questa è la domanda, come rendere Predator di nuovo grande? la risposta di Dan Trachtenberg è: lavorando sulle cose a portata di mano, non cercando risposte dove è impossibile trovarne, infischiandosene del resto. C’è voluto un po’, al franchise, per capirlo. Predator: Badlands non esprime – è una cosa che va chiarita subito – l’originalità che una parte di critica americana gli ha riferito. Può averla, in parte, se si restringe il campo visivo al solo franchise. Se si considerano la struttura e le idee del film in rapporto alle convenzioni del cinema commerciale americano, è tutto molto canonico. Con un’eccezione, che è la scelta più coraggiosa di Predator: Badlands, anche rispetto ai predecessori: sbarazzarsi degli umani.

Non ce n’è uno, ed è il modo più ragionevole per gestire il limite strutturale dei sequel: il vuoto lasciato dall’assenza di Schwarzy. In scena, in Predator: Badlands, ci sono solo creature di altri mondi. Lo spettro emotivo, i valori e le attitudini messe in mostra dal film ci appartengono, ma il resto è alieno da noi. Predator: Badlands racconta l’animo umano per interposta specie, e questo modo indiretto di procedere è molto cinematografico. Funziona, perché Dan Trachtenberg usa i limiti e le possibilità offerte dall’immaginario del film per fare puro cinema, pura azione, puro intrattenimento, con un decoroso fondo emotivo, sentimentale.

Dek (Dimitrius Schuster-Koloamatangi) è uno Yautja messo al bando dai suoi perché non riesce a conformarsi ai brutali e disumani (!) codici di comportamento della specie, riassumibili nel motto: uccidere, uccidere, uccidere. Nel tentativo di riconquistare la stima del clan, Dek raggiunge il pianeta Genna, il più inospitale e minaccioso di tutti, per catturare un esemplare di Kalisk, una bestia carnivora così pericolosa che persino gli Yautja si tengono alla larga.

Buona parte della forza immaginifica di Predator: Badlands sta nella messa in scena dei fallimentari tentativi del protagonista – salutati anche da rinfrescanti parentesi umoristiche – di sopravvivere in un ecosistema ostile. Gran parte della comunicazione del film è non verbale, affidata al potere didattico ed esplicativo dell’immagine, ritmata da Dan Trachtenberg per costruire un’azione e una suspense di inusuale solidità e che reggono senza problemi per tutta la durata del film, non più di un’ora e quarantacinque, sia resa lode al dio del cinema. Il contrappunto verbale ai grugniti e all’azione implacabile di Dek è rappresentato dal cervello instancabile e la parlantina senza freni di Thia (Elle Fanning), sintetica della Weyland-Yutani – la corporation di Alien – anche lei sul pianeta per il Kalisk.

Di violenza e umanità

Predator: Badlands cinematographe.it

Thia è una metà del corpo della sintetica, la metà superiore, l’altra l’ha persa in un incidente con il Kalisk, e il film valorizza drammaticamente la menomazione. Thia ha una gemella, Tessa (sempre Elle Fanning), contrappunto diabolico e amorale all’entusiasmo della sorella, anche lei sulle piste del Kalisk. Tutti cercano qualcosa, in Predator: Badlands. Tutti vogliono il Kalisk, il mostro che si fa proiezione dei desideri e delle ambizioni collettive. A Dan Trachtenberg interessa cosa riveli, la caccia la mostro, dell’interiorità dei personaggi. Il minimo comun denominatore è la violenza, parametro ineludibile della vita; il pianeta Genna, dove anche un filo d’erba può fare molto male, lo rispecchia bene.

Non ci sono umani, in Predator: Badlands, solo creature e sintetici, eppure è tutto così umano, nelle pulsioni, nei desideri, nelle paure e nelle fragilità. L’umanità è un parametro, uno standard morale, e la violenza è l’unità di misura. Umano è chi combatte per difendere sé e quelli che ama, e sa quando fermardsi. Dek e Thia, un corpo abituato a ragionare poco e una mente senza corpo, sono la più disfunzionale delle famiglie disfunzionali. Si conoscono, faticano a capirsi e a poco a poco costruiscono un rapporto, fondato su valori morali e qui sta la loro umanità: nell’essere fragili e morali allo stesso tempo, senza che le due cose collidano. Ancora, nulla di tutto questo è davvero originale. Ma Dan Trachtenberg ha capito che, se le circostanze impediscono una vera innovazione, bisogna aggrapparsi al cinema puro, alle pulsazioni del montaggio, alla costruzione dell’immagine, alla creatività dei paesaggi. Il risultato non è e non sarà mai originale. Quel già visto, però, sarà un già visto di fattura nobile.

Predator: Badlands ha un epico prologo immerso in scenari desertici alla maniera di Dune, strizza l’occhio ripetutamente al format James Cameron (Avatar) e libera i personaggi dal comfort della tecnologia costringendoli a confrontarsi con la realtà di Genna senza rete di protezione – il film si diverte a disseminare di trappole il cammino per Dek e Thia – e racconta l’umanità “senza umani” estremizzando l’interessante prospettiva che già ha fatto la fortuna di Matt Reeves e del suo Pianeta delle Scimmie (gli ultimi capitoli, soprattutto). Dan Trachtenberg è un regista lucido, non solo quando si tratta di scegliersi i padri nobili, ma anche nella gestione degli interpreti. Dà a ciascuno il suo. Regala a Dimitrius Schuster-Koloamatangi una performance puramente fisica, mentre valorizza la verve e le possibilità espressive di Elle Fanning facendola muovere senza sosta lungo i due poli dello spettro – luminosa bontà e malvagità – delle sue gemelle, per tutto il corso del film. Idee, azione, psicologia: senza riscrivere le regole del gioco, il film tiene meglio di tanti tra i predecessori. L’eccezione è inevitabile.

Predator – Badlands: valutazione e conclusione

Predator: Badlands è forse il miglior capitolo del franchise dopo l’originale del 1987. La sua forza è quella per nulla spiazzante ma calibrata al millesimo di un horror fantascientifico dall’azione incalzante, creativo nella costruzione dell’ambiente e lucido nel definire il rapporto ambiente personaggi; addirittura si permette di inserire, fra i toni cupi e piuttosto brutali della storia, parentesi di umorismo. Dan Trachtenberg dirige un film che è anche il tassello di un mosaico più grande e complesso chiamato franchise di Predator. Predator: Badlands sconta il limite di tutti i film “seriali”, lascia troppo aperta la porta al futuro, ed è frustrante. Ma si tratta di un problema marginale. Se il cinema commerciale americano non è in grado di partorire dalle ceneri della serialità e della ripetitività estrema un nuovo sé, che almeno ci presenti la miglior visione del vecchio. È questo il caso, con Predator: Badlands. Limpida la tavolozza dei temi, solido l’intrattenimento, interessanti le caratterizzazioni, apprezzabile il look. Finalmente, anche Predator può guardare al futuro con ottimismo.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3

3