The Mastermind: recensione del film di Kelly Reichardt

Kelly Reichardt scrive e dirige un heist movie fuori dagli schemi al punto che non è più possibile parlarne in quei termini. The Mastermind, protagonista Josh O'Connor, arriva al cinema il 30 ottobre 2025.

Kelly Reichardt avrebbe potuto andare sul sicuro, e girare con The Mastermind il più scrupoloso, rigoroso, decoroso heist movie – semplificando, un film di rapina – limitandosi al massimo a lavorarlo un po’ ai fianchi, giusto per una rinfrescata, senza stravolgimenti. Avrebbe anche potuto prendere di petto il canone, smontare l’heist movie dalle fondamenta e ricostruirlo da capo. Avrebbe potuto, ma non sarebbe stata Kelly Reichardt, né nel primo, né nel secondo caso.

The Mastermind esce nelle sale italiane il 30 ottobre 2025 per una distribuzione MUBI, la piattaforma streaming del cinema d’autore. Ha un cast di pregio che comprende Josh O’Connor, Hope Davis, Bill Camp, Alana Haim, John Magaro e Gaby Hoffmann. È passato in concorso a Cannes 2025, ha raccolto l’appoggio della critica ma nessun premio. Forse perché è un film di Kelly Reichardt, una delle più grandi autrici americane viventi, ma anche delle più difficili da classificare. Faticano i critici a razionalizzarne l’indiscutibile, sfuggente talento, figuriamoci la giuria di un Festival. Il punto, con The Mastermind, è che non è un heist movie, anche se all’inizio gli somiglia. Non è neanche un anti-heist movie (alla critica americana è piaciuto definirlo così). Comincia come un film di rapina e poi diventa qualcos’altro, difficile da definire, impalpabile e inesprimibile.

The Mastermind: heist movie… o forse no

The Mastermind; cinematographe.it

L’inizio appartiene all’heist movie. L’amara ironia esistenziale del finale appartiene all’heist movie. Tutto quello che è nel mezzo, no. Per capirlo, il film va studiato inizio, svolgimento e fine. Kelly Reichardt ama il cinema di genere, non al punto di farne una religione. I suoi film non si appiattiscono sulle convenzioni del genere, né valgono come reinvenzioni; è già stato detto. Come si esprime, dunque, il senso del cinema di Kelly Reichardt? Attraverso un’opera di paziente riscrittura del genere – l’ha fatto con il western (First Cow, Meek’s Cutoff), l’ha fatto con il thriller (Night Moves) – al punto in cui si può più dare un nome preciso alle cose. Il risultato è sobrio ma non austero, ambiguo ma non irrisolto, puro cinema nella forma e nell’eleganza contenuta della messa in scena. Difficile da razionalizzare, sfuggente eppure così chiaro; è la vita fatta cinema. Ecco, Kelly Reichardt non fa cinema di genere. Fa cinema.

The Mastermind comincia proprio come un heist movie. Siamo nel Massachusetts suburbano, nel 1970. 1970; non più i Sessanta, non ancora i Settanta. È un mondo ambiguo: la rivoluzione ha fallito, ma la controcultura non ha ancora esalato l’ultimo respiro. C’è una stupida guerra in Vietnam che non piace a nessuno, ma per il momento non si ferma. C’è un Presidente discutibilissimo (Richard Nixon), sostenuto da una maggioranza più o meno silenziosa. Il paese è diviso, la situazione è confusa. Proprio come il protagonista.

Il suo nome è Mooney, James Mooney (Josh O’Connor). Ha una moglie (Alana Haim), due figli (Sterling e Jasper Thompson), un papà giudice (Bill Camp) e una mamma cui rivolgersi quando gli servono soldi (Hope Davis). James è troppo vecchio per andare in Vietnam, non abbastanza integrato per vivere da borghese contento di sé, gentile ma con zone d’ombra che prima o poi verranno fuori. Decide, con due compari, di rubare in una galleria d’arte dalle sue parti dei quadri del pittore astrattista Arthur Dove. Ecco, la preparazione del colpo (gli appostamenti, le occhiate furtive, le indagini sulla sorveglianza), il colpo (i minuti contati, gli imprevisti, la suspense) ricordano l’heist movie. Quello che succede dopo, l’odissea di James per sfuggire alla polizia passando anche per la casa degli amici John Magaro e Gaby Hoffmann, è una riflessione sull’imponderabilità della vita – sulla follia e sulla fragilità delle ambizioni umane – molto poco heist. È lentezza calcolata, è psicologia che prende il sopravvento sull’azione, è la profondità rivestita di leggerezza del cinema di Kelly Reichardt.

La vita ha altri progetti in serbo per noi, parola di Kelly Reichardt

The Mastermind; cinematographe.it

The Mastermind è l’unico film di Josh O’Connor con Kelly Reichardt, ma le cose potrebbero cambiare. La regista americana (qui anche sceneggiatrice, in solitaria) ha sempre mostrato una spiccata inclinazione a costruire relazioni di lungo periodo con i suoi interpreti preferiti (John Magaro, qui presente, ma soprattutto Michelle Williams). L’attore inglese è l’incarnazione di un’attitudine delicata ma piena di chiaroscuri che si sposa bene al dna camaleontico del film e, più in generale, al cinema di Kelly Reichardt. James è un elegante, timido, in apparenza dolce padre di famiglia, che pian piano getta la maschera per offrire un’altra versione di sé, mediocre ed egoista. Ambiguo nel rapporto con il mondo – c’è aria di rivoluzione, una guerra e tutto il resto, ma in che modo ne è influenzato? – e irrisolto interiormente, James è diverso dall’uomo che sembrava all’inizio. Il suo movimento interiore combacia perfettamente con quello di The Mastermind, l’heist movie che cambia pelle strada facendo.

In realtà il finale, amaro, spettacolare e così autentico, è puro heist: non conta quanto (im)perfetta sia la rapina, alla fine il mondo si ricorda sempre di te. È anche coerente con la filosofia di un film che di stereotipato ha ben poco. The Mastermind è un saggio ipnotico, delicato ma non superficiale, venato di malinconica ironia, sull’impossibilità di realizzare le proprie ambizioni. James è convinto, in parte con buone ragioni, in parte per esagerata stima di sé, di aver diritto a una fetta della torta. Il mondo gli mostrerà che ha torto. Non si può parlare di heist perché sono le conseguenze della rapina, più che la rapina, a contare; perché il focus è sulla vita e su come, sottile e invisibile, la vita lavora per e (soprattutto) contro di noi.

A bilanciare il camaleontico protagonista c’è l’ottimo cast di contorno. Vale per la maturità leggermente sofferta di Alana Haim, l’autorità burbera di Bill Camp, la gentilezza studiata di Hope Davis, l’amicizia senza troppe riserve di John Magaro e quella più ritrosa di Gaby Hoffmann, l’incastro dei due ragazzi (uno parla sempre, l’altro no). The Mastermind è una galleria di idee e suggestioni che chiamano in causa un certo tipo di cinema e, allo stesso tempo, un discorso personale e con pochi paragoni. È divertente e profondo, intelligente senza essere serioso, studiato. Dà l’idea di venir fuori da un flusso spontaneo di ispirazione, per quanto sia vero il contrario. È un film di Kelly Reichardt: lavora sulla pelle ma punta la coscienza dello spettatore, e la raggiunge senza fretta, prendendosi il suo tempo.

The Mastermind: valutazione e conclusione

È importante che MUBI si faccia carico della distribuzione di The Mastermind. È importante, in un’epoca di guerra santa tra formati, e la sala e lo streaming si guardano in cagnesco accusandosi reciprocamente di essere l’uno minaccia esistenziale per l’altro/a, che una piattaforma si ricordi di valorizzare (anche economicamente) l’esperienza cinematografica, sociale e condivisa. Il film di Kelly Reichardt – il secondo consecutivo sul mondo dell’arte, dopo Showing Up – ha molto da offrire, a casa e al cinema. Non è il film più riuscito per la regista americana, non il più radicale. È il più arioso e il più divertito, e merita il grande schermo per più di una ragione. Per la flessibilità e la caratterizzazione insinuante del sempre bravissimo Josh O’Connor. Per il mood autunnale della fotografia di Christopher Blauvelt. Per l’incalzante soundtrack free jazz di Rob Mazurek. Per la quieta morale esistenziale. Per la pulita eleganza dell’immagine. L’azione lascia spazio alla riflessione, l’umorismo alla malinconia, ma il film non cede mai alla seriosità, ha una leggiadria e una grazia non ostentate che parlano del miglior cinema d’autore: quello che provoca il pubblico perché lo rispetta, e ha qualcosa da raccontare. Da non perdere.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 3.5

3.8