HIM: recensione dell’horror di Justin Tipping

HIM, prodotto da Jordan Peele, diretto da Justin Tipping e con Marlon Wayans, è un ambizioso ma irrisolto horror sui lati oscuri dell'ambizione, il football americano e le tensioni razziali nello sport. Il 2 ottobre 2025 in sala.

I nomi possono trarre in inganno. Buona parte dell’hype – calcolata aspettativa, funziona pure in italiano – intorno a HIM, regia di Justin Tipping e nelle sale italiane il 2 ottobre 2025 per Universal Pictures Italia, riposava sulla promessa di intelligente intrattenimento suggerita dal credit produttivo di Jordan Peele, l’autore del più importante – non necessariamente il migliore, ma il più importante sì – horror del XXI secolo, Scappa – Get Out: umor nero, paura e l’esperienza afroamericana negli Stati Uniti di oggi e di ieri. In effetti, e a un livello epidermico, HIM ha una certa affinità (tematica, spirituale) col super classico del 2017. Anche qui si parla di corpi neri e avidità bianca, dell’oscurità nascosta dietro una patina di benestante, pacata rispettabilità. Il focus però è da tutt’altra parte, è sullo sport, sul lato oscuro della determinazione, sul prezzo dei sacrifici e l’indisponibilità ad accettare il declino. Con Marlon Wayans, Tyriq Withers e Julia Fox, lei avrebbe di sicuro meritato più spazio, HIM è un horror dilaniato dallo squilibrio tra la colossale ambizione delle premesse e l’impietoso bilancio. Il film non tiene testa all’idea originale, e a poco serve un’esuberanza formale che funziona solo se c’è qualcosa di sostanzioso, dietro, a sostenerla. Non è questo il caso. Del cinema di Jordan Peele, si avverte al più l’eco lontana; una seducente promessa, tradita dalle circostanze.

HIM: di uomini ambiziosi e del lato oscuro dello sport

HIM; cinematographe.it

Appurato che Jordan Peele in veste di totem produttivo non basta a salvare HIM dall’inconcludenza, bisogna riconoscere che il film ce la mette tutta – lavorando sulla forma e provocando sui temi – per irrobustire il suo intrattenimento. Justin Tipping – sua anche la sceneggiatura insieme a Zack Akers e Skip Bronkie – sceglie l’ultracompetitivo sfondo del football americano per ragionare di fama, determinazione, corruzione morale, avidità, sacrifici. Il football non è un mezzo per un fine, non è usato in maniera strumentale, non è la metafora che ammorbidisce un messaggio altrimenti indigesto per il pubblico. No, il film crede nel football e cerca di dargli la tridimensionalità che merita.

Le regole, l’adrenalina, la passione, le zone d’ombra: lo sport è una cosa viva, e questa è la cosa migliore di HIM, il quadro d’ambiente messo in piedi in modo controintuitivo, dando spazio alle cose che di solito non si vedono e non mostrando invece l’unica che si vede sempre: la partita. Qui, di visibile, c’è il dietro le quinte – i contratti, gli allenamenti, le rinunce, i media – ed è una scelta intelligente. Molto cinematografica, perché il cinema non è solo le cose che mostra, ma anche (verrebbe da dire, soprattutto) quelle che sceglie di non mostrare. Raccontare lo sport mostrando tutto tranne l’evento sportivo è una bella contraddizione. HIM però non sa valorizzarla.

Non basta. Servono anche volti, corpi, per far correre la storia. I protagonisti sono due, in rotta di collisione. HIM è la storia di una stella che cade e di una che sale. La stella calante è quella di Isaiah White (Marlon Wayans), il più grande quarterback di sempre; dopo otto titoli è sul punto di ritirarsi. La stella nascente è Cameron Cade (Tyriq Withers) detto Cam. È cresciuto guardando le partite di Isaiah in tv, animato da una furiosa voglia di farcela, instillata dal padre. Sul punto di sbarcare nella lega dei grandi, Cam subisce una misteriosa aggressione che mette a repentaglio il suo futuro. Il soccorso arriva insperato. Isaiah invita Cam a raggiungerlo nella sua residenza privata – sorta di Neverland nel deserto, circondata da fan schiamazzanti, squilibrati e fondamentalisti – per una settimana di allenamenti privati. Giusto per testarne l’abilità, vedere di che pasta è fatto e capire se c’è un futuro per lui nell’ambiente. Le cose si faranno più perverse e paranoiche (e violente) del previsto.

Troppa confusione e idee non abbastanza sviluppate

HIM; cinematographe.it

Suddiviso in capitoli, uno per ogni giorno di allenamento, e incorniciato da una dinamica narrativa apprezzabile per la sua rinfrescante semplicità – astro nascente vs. venerabile maestro, fuoco alle polveri – HIM sa dove vuole andare ma non ha idea di come arrivarci, e nell’aleatorietà delle sue scelte deraglia in un disappunto estremamente visionario. Il film non teme l’intelligenza, come capita alla maggior parte del cinema commerciale contemporaneo (e non solo americano), né cerca di darsi spessore sacrificando l’adrenalinico racconto dello sport e della sua fisicità nervosa e violenta. Prova a essere entrambe le cose, carne e testa; HIM però è diverso dal film commerciale che si dà un tono, non organizza le sue idee e risolve tutto in un caos pretenzioso e sterile. Qui il problema è un altro: a tratti, è difficile persino isolare le idee. È un peccato, perché Justin Tipping voleva davvero girare un film diverso.

Emergono al più due nuclei tematici su cui si può ragionare, nella caotica gestione del materiale offerta dall’incerto script e l’ancor più confusa regia. Il primo fa riferimento al lato oscuro del successo, ai sacrifici e al prezzo che si paga per essere GOAT (l’acronimo della grandezza), ai figli che uccidono il padre (i padri) per diventare grandi. Il secondo nucleo, meno universale e più focalizzato sulla realtà americana, considera lo sport come l’arena di cui si serve il privilegio bianco (i ricchissimi proprietari) per prosperare, manipolando l’identità afroamericana nel corpo e nell’anima. Bianchi che si arricchiscono succhiando la linfa vitale dei neri? Jordan Peele aveva fatto il botto raccontando una storia simile, ma con umorismo, una forza visionaria e un’inquietudine calibrate al punto da far gridare al miracolo. HIM tratteggia la mappa dei temi ma non sa scavarli, o metterli in rapporto gli uni agli altri, né renderne conto al pubblico.

E così, l’istinto manipolatorio e la grandezza tragica di Marlon Wayans – il GOAT di ieri che non si rassegna – resta in una sconfortante, quasi macchiettistica bidimensionalità. Tyriq Withers non ha il tempo e il modo di colorare la freschezza e l’ambizione di Cam di note più insinuanti, sinistre. Resta sullo sfondo la satira sul ruolo dei media, e c’è poco da fare per Julia Fox e la stereotipata moglie-influencer. E non c’è spinta, né anima, nel grottesco ma poco creativo finale, che cerca di dare uno spessore politico, quasi sociologico, alle sue riflessioni – il lato oscuro del successo vs. avidità bianca sui corpi neri – con un immaginario apparentemente oltraggioso, in realtà prevedibile.

HIM: valutazione e conclusione

Dell’inconcludenza dei risultati: come valutare altrimenti l’esuberante fotografia di Kira Kelly – l’immagine ricercata, i toni carnali e violenti, il gusto per l’angolazione insolita – e l’onnipresente colonna sonora di Bobby Krlic? Il tentativo di Justin Tipping è di irrobustire HIM, meglio, coprirne la sterilità, puntando sulla sovrabbondanza formale, sull’intensità degli effetti, la brutalità del montaggio, la pervasività del suono. Ma la forma non può diventare sostanza a meno di una lucidità di tocco, una consapevolezza del mezzo e delle sue potenzialità che qui mancano. È un fallimento doloroso, quello di HIM. Non si può non sentire solidarietà per le scelte e il coraggio di Justin Tipping, che prova ad andare oltre la patina del puro intrattenimento e fallisce per aver provato a mettere qualcosa in più e non, come capita di solito, per non averci nemmeno provato. Non bastano le intenzioni, per quanto nobili, a riscattare un film. Non basta nemmeno il nome altisonante (Jordan Peele) perché si sa, i nomi a volte ingannano. Se c’è un modo di valorizzare la confusione tematica e formale di HIM è di leggerci una dolorosa, magari utile, lezione per il futuro.

Regia - 2
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Recitazione - 2
Sonoro - 2
Emozione - 2

2.2