Black rain in my eyes: recensione del film, dal Sole Luna Doc 2025
È impossibile trovare bellezza in mezzo alle macerie, eppure Black rain in my eyes ci riesce, armato di creatività, arte e poesia.
Mancare è la parola d’ordine di Black rain in my eyes (2024), il cortometraggio di Amir Athar Soheili e Amir Masoud Soheili presentato durante la 20ma edizione del Sole Luna Doc Film Festival. Un verbo che ci fa calare nel vuoto, trasformandolo in pieno, arricchendolo di un significato che fugge la realtà del dolore, aggrappandosi alla bellezza della vita.
Amir Athar Soheili (già apprezzato per opere quali Elephantbird e Blue Eyed Boy) stavolta fugge dal cinema di finzione per regalarci un documentario luminoso e prorompente, in cui il potere dell’immaginazione è tale da trasformare la realtà, aggiungendo pareti laddove ci sono solo brandelli di muro, banchi dove resistono solo macerie. Allo stesso modo, il boato dei bombardamenti e il rumore delle pallottole, si trasformano nei suoni di una festa e di un ballo.
Il protagonista di Black rain in my eyes è Hessan, un poeta siriano, padre di quattro figlie cieche. Quella “pioggia nera” che offusca la loro vista diviene per lui un vantaggio, un espediente utile per nascondere loro la guerra in corso, in un susseguirsi di giochi e finzioni che strizza l’occhio al nostrano La vita è bella.
Una poesia per immaginare ciò che la guerra ha distrutto, in Black rain in my eyes dei siriani Amir Athar Soheili e Amir Masoud Soheili

Cucito sui versi della poesia Kalimat, di Nizar Qabbani (“Mi sussurra, mentre balliamo, parole che parole non sono. […] …costruisce per me un palazzo di illusioni nel quale abito, solo qualche istante… / …per poi tornare al mio tavolo, a mani vuote, accompagnata solo dalle parole. / Parole che non sono parole.”) il documentario dei siriani Amir Athar Soheili e Amir Masoud Soheili sa rimaneggiare con creatività le restrizioni a cui la libertà di espressione è soggetta, confezionando un’opera che non affronta in mare aperto le tematiche politiche, optando per il sentiero di un’umanità universale, che non conosce luogo né tempo (anche se qui è definito).
È emozionante notare come Hessan riesca a creare un rifugio emotivo per le sue figlie, trasformando in magia tutto il terrore di cui la realtà è carica. Nella loro percezione, infatti, ci sono solo voci, odori, oggetti da toccare. Chiusi gli occhi, ci si concentra quindi sul resto dei sensi, in un bagno di emozioni che fa scorgere la bellezza anche in mezzo alle macerie e alla devastazione, in una poesia dell’ignoto in cui in ogni mancanza si può scorgere un frammento di quell’Infinito leopardiano che si estende oltre la “siepe” (celebre nella tradizione poetica italiana).
La fotografia e il montaggio, firmati dagli stessi Amir Athar Soheili e Amir Masoud Soheili, sanno iniettare luminosità ricorrendo a luci calde, spostando l’attenzione sull’accecante azzurro del cielo, sulla luce che attraversa le scuole distrutte e lasciando che anche lo spettatore, nel finale, scorga l’immaginazione delle bambine. Così di colpo la scuola si riempie di bambini col grembiule e la cartella, seduti tra i banchi improvvisati, a correre tra i corridoi massacrati di macerie, mentre luci al neon dai colori fluorescenti disegnano ciò che la guerra ha portato via dalla città: intere pareti di una casa, culle, tende. In poche parole: normalità.
Black rain in my eyes: valutazione e conclusione

E così, come abbiamo scritto in principio: Black rain in my eyes è mancanza percepita e colmata, è poesia che salva, umanità che resiste e lo fa senza odio né armi, perché l’immaginazione a volte basta. Perché l’arte salva, salva la vita che resta, quando tutto intorno crolla e gli occhi gridano di terrore; l’arte resta lì, attaccata al non detto e al non visto, per proteggere chi amiamo dal terrore di cui non siamo responsabili, ma che dobbiamo affrontare.