Tutto quello che resta di te: recensione del film di Cherien Dabis
Cherien Dabis scrive, dirige e interpreta un toccante dramma su una famiglia palestinese e tre generazioni di ingiustizia. Tutto quello che resta di te arriva in sala il 18 settembre 2025.
Il film più politico dell’autunno 2025 riesce a esserlo in un modo interessante: facendo finta di no. Il cinema di impegno civile ha codici, regole e convenzioni di un certo rigore cui sottostare. È importante cosa mette in scena e come, perché la posta in gioco è la realtà scomoda, e la realtà scomoda non va tradita da una cronaca imprecisa, a maggior ragione se l’idea è di invitare lo spettatore a prendere posizione (se non lo ha già fatto). A Cherien Dabis tutto questo non importa, vuole arrivare allo stesso traguardo ma per un’altra strada. Il suo film – candidato dalla Giordania all’Oscar 2026 – si chiama Tutto quello che resta di te, arriva nelle sale italiane il 18 settembre 2025 per Officine UBU dopo una scorpacciata di Festival che ha abbracciato mezzo mondo, dall’americanissimo Sundance a Shanghai. Racconta il trauma dell’identità palestinese violata, l’odissea di una famiglia disgregata dalla crudeltà e le persecuzioni israeliane, concentrandosi sui rapporti umani, sul versante intimo, psicologico, quotidiano. È la storia di una famiglia; potrà rifletterne tante, ma è comunque una. È un paradosso, e funziona esattamente per questo: perché il cinema è la casa dei paradossi.
Tutto quello che resta di te: tre generazioni di ingiustizia

In un certo senso, Tutto quello che resta di te è il logico contrappunto al film più incendiario che il tragico 2024 e l’ancor più tragico 2025 abbiano dedicato alla causa palestinese. Si chiama No Other Land, è un documentario, un capolavoro e ha pure vinto l’Oscar (l’avete visto? No? E perché no? Sta su Mubi). Racconta la stessa disumana ingiustizia, muovendosi nei codici del cinema di denuncia di cui si è parlato sopra, con accenti molto affilati. Non è una recriminazione nei confronti dell’approccio adottato da Cherien Dabis per la sua storia, piuttosto il contrario: i due film, i due approcci, i due punti di vista, il pubblico e il privato, si nutrono e comunicano. Probabilmente, l’uno acquista forza perché c’è l’altro a bilanciarlo e ad arricchirlo.
Cherien Dabis esercita un controllo totalizzante su Tutto quello che resta di te. È regista, sceneggiatrice, interprete. Il tipo di film che sceglie di girare è diretta conseguenza della sua esperienza, della sua vita. Palestinese-americana, cresciuta altrove, il grosso dei contatti con la sofferenza del popolo palestinese li ha avuti mediati dalla distanza e nel corso del tempo. Costruire il film privilegiando il privato, affrontare la questione dal punto di vista della cronaca familiare, è il riconoscimento di una lontananza che può essere camuffata solo al prezzo di una retorica insopportabile. In altre parole: Cherien Dabis gira il film che la sua vita le impone di girare. L’apertamente politico, il manifestino, avrebbe puzzato di ruffiana indiscrezione. Sarebbe stata la scelta più comoda, dati i tempi, e va apprezzato il coraggio di non aver ceduto alla tentazione.
Di cosa parla, esattamente, Tutto quello che resta di te? Perché, nella sua apparente estraneità ai codici di un certo tipo di cinema, esprime comunque una valenza politica? La storia è quella di una famiglia che cerca di restare tale nonostante tutto, raccontata dalla prospettiva di non una ma tre generazioni. Comincia tutto con Hanan (Cherien Dabis) che parla, ai giorni nostri, a un interlocutore sconosciuto a proposito di suo figlio Noor (Muhammad Abed Elrahman). Noor è stato colpito da un proiettile israeliano nel 1988, nella Cisgiordania occupata, a un anno dalla prima Intifada (rivolta, sollevazione). Dieci anni prima, nel 1978, il papà di Noor, Salim (Saleh Bakri), era stato costretto a subire un’indicibile umiliazione. Trent’anni prima, nel 1948, il nonno di Noor, Sharif (Adam Bakri, da anziano Mohammad Bakri) aveva dovuto abbandonare la sua casa e la sua ricchezza a Jaffa, in coincidenza con la nascita dello stato d’Israele. Non c’è più il tempo, passato o futuro: solo un eterno presente, riassunto dall’ingiustizia e dall’esilio. È una delle prospettive più sconcertanti e riuscite del film, il ribaltamento, anzi la frantumazione, delle coordinate della Storia. Va tenuta a mente la maiuscola.
Dalla Storia di un popolo alla storia di una famiglia: smitizzare la maiuscola per arrivare a una verità diversa

Tutto quello che resta di te è un film sulla Palestina nell’intervallo tra un massacro e l’altro, il catalogo di tutte le cose che in Occidente non si vedono: la vita quotidiana, le tensioni, le sofferenze e i bivi morali (ce ne sono, e occupano molto spazio interiore) che precedono e seguono le ingiustizie meritevoli di copertina. È un’epica contromano, che cerca il suo largo respiro nel racconto dei sentimenti e delle dinamiche, piccole dinamiche familiari, generalmente estranee alle versioni ufficiali della storia. Se di ideologia si può parlare, quella di Tutto quello che resta di te è: smitizzare le maiuscole, dalla Storia alla storia (alle storie), per arrivare a una verità vicina al cuore umano, con tutti i rischi – eccessi di sentimentalismo, imprecisione dell’analisi – del caso.
Il film semina domande. Niente risposte, solo tentativi. Il tentativo della famiglia di Noor di restare famiglia. Il tentativo di un collettivo di palestinesi di conservare, ricomponendola dai mille pezzi in cui è frantumata, una parvenza di identità palestinese. L’ostinazione di chiamare casa un posto che ha smesso di essere casa da molto tempo, e per volontà altrui. Bisogna andarsene o restare? È meglio combattere o non dare nell’occhio? O, per essere più precisi, è meglio un cinema di denuncia fatto come si deve, seguendo le regole, o è preferibile mirare al bersaglio lateralmente, guardando prima ai sentimenti, alla vita di una famiglia, e da lì trovare un’inedita angolazione politica? Ancora domande, sempre domande.
Al suo meglio, Tutto quello che resta di te è un’intensa esplorazione dei travagli dell’identità palestinese filtrati dall’odissea di una famiglia. Partigiano nel modo giusto, il film concede a ognuno le sue ragioni. Non si può riportare tutto in una recensione; una battuta fulminante che Cherien Dabis riserva all’interlocutore misterioso inquadra la tragedia del film in un’ottica più vasta (palestinese e israeliana), complicando di molto le cose, che è quello che si chiede al cinema che va oltre la frontiera dell’intrattenimento. Il fiore all’occhiello è il coraggio di uno sguardo largo e intimo, anche se c’è troppo perché il film, nelle sue due ore e venti, riesca a contenere tutto. La battaglia con il nemico più infido, il doppio nemico, retorica e sentimentalismo, a volte è persa, magari per colpa di un commento musicale troppo ingombrante. Tutto quello che resta di te racconta molto, tralascia tanto, non è sempre equilibrato. Ma ha l’urgenza giusta, una prospettiva familiare sull’argomento che è insolita. Se non fosse un’insopportabile scorciatoia retorica, e anche fuori posto, verrebbe da dire che è un film necessario.
Tutto quello che resta di te: valutazione e conclusione
È un modo leggermente diverso di raccontare la stessa storia, ed è l’elemento più interessante di Tutto quello che resta di te. La politicità “indiretta” del film di Cherien Dabis è il tentativo di mantenersi accessibile – far arrivare il film al pubblico maggiore possibile – senza sacrificare la verità umana e la carica politica della storia di questa famiglia. Un film commovente, inevitabilmente imperfetto data la materia, mix di sensibilità e di sguardi e merita di essere approcciato anche per questo. Racconta il dolore senza cedere al morboso. Non può permettersi di essere ottimista ma ha la forza, qui senza traccia di retorica, di reclamare nel cuore della più profonda ingiustizia il riconoscimento dell’umanità comune a tutti, vittime, carnefici, vicini e lontani. Il film meritava forse una forma, un’estetica, più audace e creativa. Ma il coraggio del suo punto di vista inedito e l’integrità dell’emozione meritano il massimo rispetto.