The Conjuring – Il rito finale: recensione del film di Michael Chaves

Vera Farmiga e Patrick Wilson sono di nuovo Ed e Lorraine Warren, investigatori del paranormale in The Conjuring - Il rito finale. Il nono capitolo del popolare franchise arriva nelle sale italiane il 4 settembre 2025.

Nono capitolo dell’universo cinematografico condiviso, The Conjuring – Il rito finale arriva nelle sale italiane il 4 settembre 2025 per Warner Bros. Pictures Italia e promette di essere quello che il titolo, le strategie promozionali e una sfumatura di lungo addio posata su storia e personaggi suggeriscono: una parola più o meno definitiva su uno dei franchise più popolari degli ultimi anni. Niente finisce davvero, a Hollywood; quello che è irrimediabilmente concluso oggi può miracolosamente rinascere domani. Se la via principale è ostruita si può sterzare in una laterale (spin-off), riavvolgere il nastro (prequel), spengere e riaccendere (reboot)… insomma, è una lunga lista. Parlando dell’immediato, il film diretto da Michael Chaves – dietro la macchina da presa anche in The Conjuring – Per ordine del diavolo (2021), di cui il film del 2025 è sequel diretto – serve a regalare una gloriosa, turbolenta e paurosa passerella alla coppia di investigatori del paranormale Ed e Lorraine Warren, interpretati da Vera Farmiga e Patrick Wilson.

The Conjuring – Il rito finale: due famiglie allo specchio

The Conjuring - Il rito finale; cinematographe.it

Ed e Lorraine Warren sono esistiti davvero. Coltivare un sinistro parallelo tra la finzione cinematografica e il torbido riferimento alla vita reale è sempre stato un pilastro della seduzione del franchise made in James Wan e Peter Safran. È così per The Conjuring – Il rito finale, era così per i film nel mezzo e anche per il capostipite, che si chiamava L’evocazione – The Conjuring e uscì, con buon riscontro di pubblico e critica, nel lontano 2013. Se una didascalia sul finale ci informa che il lavoro dei coniugi Warren resta controverso, mancando gli strumenti per validarne l’efficacia e, soprattutto, l’attendibilità, è altrettanto vero che The Conjuring – Il rito finale ha scelto da che parte stare: dalla parte di Ed (Patrick Wilson) e Lorraine (Vera Farmiga). Il film drammatizza un presunto caso di infestazione occorsa in Pennyslvania, la località si chiama West Pittston, tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli ’80 circa.

È il caso della famiglia Smurl, ma prima che le due rette si incontrino, dei Warren e degli infestati, passa un po’ di tempo, ed è intenzionale. The Conjuring – Il rito finale è diretto da Michael Chaves su script di Ian Goldberg & Richard Naing e David Leslie Johnson-McGoldrick, ed è costruito sulla sistematica opposizione di attesa trepidante e visceralità horror. Gli Smurl vivono in un (esteticamente) discutibile sobborgo della Pennsylvania – sfondo fumigante, zona industriale, freddo e polvere – sono cattolici praticanti e le cose precipitano quando, per celebrare la figlia più grande che fa la cresima, arriva in casa uno strano specchio.

È vecchio, ha tre putti inquietanti in cima e il vetro spezzato da una crepa. I poveri Smurl non hanno soldi per scappare in motel e non gli resta che avvertire la stampa e sperare nelle attenzioni della Chiesa. Non che la Chiesa sembri interessata all’infestazione, e nemmeno la famiglia Warren, per la verità. Ed e Lorraine vogliono mettersi alle spalle quel capitolo della loro vita. Sono invecchiati – Ed ha qualche problemino di salute – e la priorità sembra essere il matrimonio della figlia Judy (Mia Tomlinson) con Tony (Ben Hardy). È il trattamento Nolan (Il Cavaliere Oscuro e seguito) applicato all’horror: la coppia di eroi e stanca e disillusa deve rimettersi in pista per un’ultima, pericolosa danza. È il mondo che li costringe a tornare in sella; casa Smurl, lo specchio e il demone nascosto lì dietro li riportano a un doloroso capitolo della loro vita passata. Ha molto a che fare con Judy.

Due diversi tipi di paura, la paura demoniaca e… l’altra

The Conjuring - Il rito finale; cinematographe.it

La famiglia, ancora la famiglia, sempre la famiglia. E perché no? The Conjuring – Il rito finale ha due facce. C’è un horror tradizionale in superficie, sottogenere possessione infestazione, costruito sull’accostamento di due tipi di paura: lo shock indotto direttamente dalla storia, e l’inquietudine per il probabile/possibile/in realtà poco realistico ma destabilizzante gancio con la vita reale. Il fatto che Ed e Lorraine siano esistiti davvero carica l’orrore di un sottotesto sinistro; potrebbe essere successo davvero. Poco importa che lo status dei protagonisti sia realmente controverso e che la gran parte dei presunti casi di possessione e infestazione venga liquidata, dalla Chiesa stessa, come suggestione o, peggio ancora, puro artificio: The Conjuring è l’unico franchise, tra i recenti, ad aver fatto buon uso della formula “tratto da fatti realmente accaduti”.

Oltre l’horror c’è la cronaca famigliare: padri, madri, figli e figlie e le cose che si mettono in mezzo al sentimento di una famiglia. Ed e Lorraine si specchiano negli Smurl, e viceversa. Il tempo che il film si prende per far combaciare le due linee narrative, le pause dall’orrore puro in favore del racconto del quotidiano di due famiglie – che in realtà sono una sola, animata dalla stessa minaccia – serve a sostenere la suspense (qualcosa succederà, ma quando? e come?) e a sottintendere che dietro la paura esteriore (gli strani rumori, le presenze invisibili) se ne nasconde un’altra, più strisciante. L’unica cosa peggiore del demone nascosto in fondo allo specchio è la minaccia riflessa dallo specchio: il pensiero che possa accadere qualcosa alle persone che ami.

Ecco, il vero nemico. Michael Chaves gira, con The Conjuring – Il rito finale, un horror per i figli raccontato dal punto di vista dei genitori. È la storia di un padre e una madre che devono accettare l’idea che il tempo (il loro tempo) sia passato e che i figli vadano per la loro strada, con tutti i rischi del caso. I minuti spesi dal film per sistemare le pedine in vista dello scontro decisivo, il senso di sorda minaccia accumulato, un mattoncino di tensione dopo l’altro, il carisma e l’alchimia rodata tra Vera Farmiga e Patrick Wilson alludono alla possibilità di un pirotecnico finale. Invece, anche perché molti dei suoi shock erano stati anticipati, risulta tutto abbastanza statico e convenzionale. Il pregio più visibile di The Conjuring – Il rito finale finisce per essere il suo difetto più grande: il senso di fermo controllo sulla storia, sui personaggi, sulle atmosfere, esercitato dalla regia di Michael Chaves, sa di pilota automatico. È una visione meccanizzata in cerca di lampi, brandelli, di vitalità. Timoroso del grande salto, il film non osa.
 

The Conjuring – Il rito finale: valutazione e conclusione

Vale soprattutto per la prima metà, per la tensione crescente, per il tempo che la storia si prende a mettere in un cantuccio l’orrore per parlarci d’altro. Vale per il senso di cupa oppressione evocato dalla fotografia di Eli Born. Vale per il lavoro di Vera Farmiga e Patrick Wilson, per Steve Coulter (Padre Gordin), per Mia Tomlinson e Ben Hardy. Vale per queste ragioni, The Conjuring – Il rito finale; film di paura che sa dove colpire, ma troppo cauto nel giocare con i suoi punti di forza e non abbastanza saldo nel fare i conti con i suoi limiti, i suoi demoni. Gratificherà gli amanti del franchise, non demoralizzerà i profani. È lontano, e molto, dalla forza plastica e l’audacia formale di un contemporaneo come Weapons. Chiaro che, nel caso di The Conjuring – Il rito finale, pesano i limiti all’originalità e le costrizioni della formula indotte dall’appartenenza a un franchise preesistente.

Regia: 2,5

Sceneggiatura: 2

Fotografia: 3

Recitazione: 2,5

Sonoro: 2,5

Emozione: 2,5 Voto: 2,5

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 2.5

2.5