Giulio Base su Albatross: “se racconti la verità devi rispettarla”
Il regista intervistato in occasione dell'uscita del suo ultimo film, Albatross.
Il necessario racconto di un personaggio dimenticato passa anche – e soprattutto – attraverso le parole di chi ha avuto il coraggio di riportarlo alla luce. Giulio Base, regista, sceneggiatore, attore e produttore, torna al cinema con Albatross, un’opera che affronta di petto il nodo della memoria e della complessità. A dare il titolo al film è l’agenzia fondata negli anni Ottanta da Almerigo Grilz, giornalista e videoreporter triestino, primo cronista italiano caduto in un conflitto postbellico, rimasto troppo a lungo ai margini della narrazione storica ufficiale. Distribuito da Eagle Pictures e uscito nelle sale italiane lo scorso 3 luglio, Albatross è un film che non cerca lo scontro ma la riflessione, che mette in scena un passato divisivo con uno sguardo lucido e mai dogmatico. Un biopic asciutto, rigoroso, scritto e diretto dallo stesso Base, che affida a Francesco Centorame il volto del protagonista e si avvale di una fotografia dai toni documentaristici di Giuseppe Riccobene e delle musiche essenziali di Flavio Ibba. In occasione dell’uscita del film, il suo autore ci ha concesso alcune domande e ha prontamente risposto trainato dall’esperienza e dalla consapevolezza che ancora oggi muovono il suo cinema.
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Giulio Base e il racconto di Almerigo Grilz

Quali sono le tue sensazioni in un giorno così importante per te e per il film?
Sono emozionato. Sono tanti anni che faccio cinema, ma l’uscita di un film è sempre un momento delicato, e stavolta si va in oltre 120 sale. Non sono poche per un film italiano. I miei lavori precedenti sono stati spesso più di nicchia, ricercati, d’essai. ‘Albatross’ invece incontra un pubblico più ampio, e questa cosa mi emoziona.
Il film affronta tematiche che possono risultare scomode. Quanto è difficile raccontare una storia come quella di Grilz restando trasparenti, senza condannare né celebrare?
Mi sono reso conto subito che era una materia spigolosissima, da qualsiasi lato la si affronti. Toccava nervi ancora scoperti, sensibilità non sopite. I rischi erano tanti, e le cadute, le remore, gli ostacoli possibili. Però ogni tanto un po’ di coraggio ci vuole. Mi sono buttato in quest’impresa perché mi sembrava giusto non far cadere nel dimenticatoio la figura di un giornalista che, piaccia o meno, è morto mentre svolgeva il suo lavoro, sul campo. Non è stato celebrato come altri suoi colleghi – penso a Cutuli o alla Alpi, penso a tanti altri – che giustamente sono stati ricordati come eroi. Ma non capivo perché lui no. Devo dire che anche io, inizialmente, avevo dei pregiudizi, non me la sentivo. Poi, però, quella vena “semi-anarcoide” che ho dentro – quella voglia di raccontare ciò che sembra scomodo – mi ha fatto pensare: ‘Chi me lo impedisce?’.
Parliamo del personaggio: quanto pensi sia cambiato oggi il ruolo del reporter di guerra, e quanto i social, i podcast e i nuovi media hanno modificato il giornalismo?
Non sono un esperto, ma approfondendo il tema per scrivere il film ho notato quanto oggi il giornalismo sia frammentato. Viviamo in un’epoca in cui tutti sanno tutto, ma nessuno sa davvero se sia vero. E spesso nemmeno chi documenta ha strumenti per garantire l’autenticità. C’è sempre una scelta di campo, uno sguardo. Nel film abbiamo fatto ricerche anche su dettagli come i corpetti “PRESS” – oggi fondamentali – ma che all’epoca non esistevano. I reporter erano più allo sbaraglio. Potevi facilmente essere scambiato per un nemico. Ripeto, non sono un’esperto, ma questa è la mia opinione e mi è piaciuto molto studiare questi argomenti e approfondirli guardando altri film o leggendo testimonianze.

Cosa c’è di tuo in Grilz – o meglio cosa c’è di lui in te?
Una cosa che mi ha colpito riguardando il film è che il personaggio, in un’intervista, dice che fare la vittima non gli appartiene e non è neanche da me fare la vittima. Spesso mi chiedono se, non essendo mai stato schierato politicamente, ho pagato un prezzo. La risposta è sì. Ma non lo dico con amarezza. Lavoro da 42 anni, sotto tutti i governi, senza mai etichettarmi. E se questo mi ha portato qualche difficoltà in più, non importa. Non ho mai voluto appartenere a nessuna etichetta predefinita.
Esistono oggi dei “nuovi Grilz”? Qualcuno che si avvicina a quella figura?
Non saprei dire. Ma ti posso raccontare una cosa: i due cofondatori reali dell’agenzia Albatross sono ancora vivi. Ho avuto la fortuna di conoscerli. Sono stati la mia zattera durante questo progetto, il mio punto di appoggio. Nel film li abbiamo rappresentati con i loro nomi e cognomi e seguendoli mi è sembrato di capire che loro quello stile lo possiedono ancora. Hanno messo su un’agenzia di stampa concorrente delle grandi testate mondiali, con mezzi ridotti ma con tanta determinazione e questa cosa mi fa esultare di gioia. Pertanto; mi piace pensare che in loro ci sia tutt’oggi quella scintilla.
Hai scritto che “ci sono storie che non gridano, eppure lasciano l’eco”. È anche questo l’obiettivo del cinema? Quanto cinema c’è nella storia di questa agenzia?
Mi auguro ce ne sia tanto. Perché il cinema, alla fine, è un’arte che compendia tutte le arti, comprende anche il giornalismo. Siamo cugini: lui con la sua telecamera cercava la verità, io con la mia macchina da presa ho cercato di raccontare la sua. Certo, il cinema non è obbligato a dire la verità, può anche sognare. Ma se racconti una storia vera, allora quella verità devi rispettarla. Ho avuto come riferimento film come Salvador di Oliver Stone. C’è una responsabilità nel raccontare storie così. Ma anche una bellezza.
Ultima domanda, da regista ma anche da direttore artistico: qual è secondo te oggi lo stato di salute del cinema italiano, sia in termini di qualità che in termini di valore dei temi trattati?
Vedo il bicchiere mezzo pieno. Non ho l’invidia tra i miei difetti, quindi posso dirti senza problemi che ci sono almeno dieci registi italiani più bravi di me. E vedo opere belle, giovani maestri, grandi autori che continuano a lavorare con dignità. Certo, abbiamo sempre il problema dell’incontro col pubblico. C’è un po’ di sfiducia. Ma nel 2024 i numeri del botteghino italiano sono cresciuti molto. Un terzo dei biglietti venduti erano per film italiani. Questo è un dato che fa ben sperare. Io sono ottimista. E tifo per tutti i miei colleghi.