Warfare – Tempo di guerra: recensione del film di Alex Garland e Ray Mendoza

Regia di Alex Garland e Ray Mendoza, Warfare - Tempo di guerra è un'impressionante ricostruzione della realtà della guerra vista dall'interno. Al cinema dal 21 agosto 2025.

Warfare – Tempo di guerra è il solito film di guerra, almeno fino al punto in cui smette di esserlo. Regia di Alex Garland e Ray Mendoza, nelle sale italiane arriva il 21 agosto 2025 dopo l’anteprima al Taormina Film Festival 2025, distribuzione I Wonder Pictures. Alex Garland non ha bisogno di presentazioni, è uno dei più influenti registi e sceneggiatori del cinema contemporaneo, da 28 anni dopo (script) a Civil War (regia). Su Ray Mendoza, invece, qualcosa bisogna dirla: è stato, fin qui, consulente militare per diversi film di argomento bellico tra cui Lone Survivor e Civil War. Ex Navy SEAL, è dai ricordi, suoi e dei compagni dei corpi speciali della marina militare americana impegnati in missione a Ramadi, Iraq, nel 2006, che nasce il film, la sua urgenza e la peculiarità dell’esperienza.

Warfare – Tempo di guerra è cinema di guerra, è cinema sulla guerra, ma è anche, soprattutto, un film dentro la guerra. I 95 minuti di durata, quasi del tutto in tempo reale, sono costruiti – nel ritmo, nella tensione non solo nervosa, nel sound design, nell’azione ultra adrenalinica – per farci entrare nel combattimento e, una volta cancellate le comode vie di fuga, svelarne la viscerale, gloriosa mostruosità. Alex Garland e Ray Mendoza inseguono la più grande illusione, speranza, possibilità offerta dal cinema: usare lo spettacolo, e il massimo grado di artificio, per ricostruire la vita nella sua verità più intima e scrupolosa. Una verità piuttosto brutale.

Warfare – Tempo di guerra: un giorno come tanti, una missione come tante

Warfare - Tempo di guerra; cinematographe.it
Charles Melton. Credit: Murray Close.

Uno dei modi, forse il più appariscente, di cui si servono Alex Garland e Ray Mendoza per riscrivere dall’interno la grammatica del cinema di guerra ha a che fare con la svalutazione dell’individualità. In Warfare – Tempo di guerra c’è la truppa, i NAVY Seal, il grande corpo militare composto da tanti piccoli corpi umani; ogni manifestazione di carattere, attitudine e personalità del singolo è filtrata dall’esperienza della guerra e dal senso comunitario di vita nella truppa. Non sappiamo nulla di loro prima dell’operazione, né granché dopo. Conta il presente, e il presente è il novembre 2006, in Iraq, la battaglia di Ramadi. Loro, i protagonisti, sono interpretati da una galleria di nomi tra i più promettenti del giovane cinema americano. Ci sono quelli già affermati – Will Poulter, Joseph Quinn – quelli sulla rampa di lancio – Cosmo Jarvis, Kit Connor, Michael Gandolfini – e quelli da scoprire – Charles Melton, D’Pharaoh Woon-A-Tai – e tanto basta.

Il film non ha cura di presentarli secondo gerarchie di prestigio, contrariamente allo standard del cinema di guerra che, pur concentrandosi sulla vita della truppa, isola sempre – per necessità di spettacolo, o pura retorica – alcune personalità fuori dal comune. Non stavolta; sono tutti allo stesso livello. Ovviamente esistono, nel reparto, responsabilità e mansioni, ma non è questo che interessa alla storia. Se il precedente film di Alex Garland, Civil War, proiettava lo storytelling bellico su uno scenario ipotetico (ehm) di guerra civile americana per riflettere sul concetto di testimonianza e sulla giusta distanza, morale e pratica, tra chi osserva (il reporter, il fotografo, l’autore cinematografico) e la realtà osservata, stavolta la guerra è tutt’altro che un’ipotesi e la distanza su cui il film si concentra è di altro tipo. È la distanza di incomunicabilità con i civili, la distanza dal nemico che non si vede, la distanza dai soccorsi che non arrivano, la distanza dalla vita reale limitata ai contorni di uno schermo televisivo.

Warfare – Tempo di guerra è la scansione di quattro momenti in un giorno qualsiasi nella vita di un reparto di NAVY Seal in Iraq, nel 2006. C’è il cameratismo e l’adrenalina del prima, la silenziosa coreografia notturna della missione – occupare alcune case di un quartiere a prevalenza jihadista e tenere d’occhio la zona in vista del passaggio di truppe di terra – l’attesa snervante e la carneficina, quando le forze jihadiste danno l’assalto al reparto, i rinforzi sono lontani e in mezzo al rumore, al sangue e alla morte bisogna pur vivere. I soldati, il nemico invisibile e per questo ancora più pericoloso, i locali, la famiglia che abita la casa rifugio, nascosta (sequestrata) in un angolo; nell’ora e mezza di una missione come tante, Alex Garland e Ray Mendoza si sforzano di raccontare la guerra, tutta quanta.

La verità brutale della guerra nell’artificio del cinema

Warfare - Tempo di guerra; cinematographe.it
Will Poulter. Credit: Murray Close.

Lo guerra sporca ricostruita con scrupolosa attenzione al dettaglio da Ray Mendoza e Alex Garland è la chimera di un cinema più vero del vero, l’illusione di una rappresentazione del reale capace di restituire il caos della vita nella sua gloriosa/mostruosa complessità. Il film non fa sconti alla quotidianità della guerra. La sua cifra narrativa è il paradosso: flette i muscoli saccheggiando i “trucchi” della messa in scena spettacolare – l’illusione del tempo reale, il pathos del cinema d’azione, il frastuono – per arrivare al massimo possibile di verità date le circostanze. Warfare – Tempo di guerra è, a voi l’ossimoro, uno spettacolo dal piglio documentaristico; misura l’impossibilità di filmare e riprodurre il reale mentre lo mette in scena con un sorprendente grado di esattezza.

Sembra tutto maledettamente autentico, in questo incubo brutale di suono e rumore costruito su una stringente economia di spazio e di tempo – la casa, il tempo reale, il cast posizionato più o meno allo stesso livello – per spiegarci la guerra dall’interno, anche nelle più insignificanti dinamiche morali e pratiche. Il film rinuncia alle facili concessioni del cinema spettacolare in cerca di uno spettacolo diverso, più vicino al vero. Nulla tradisce la sua ambizione meglio dello stupefacente lavoro sul sound design di Glen Freemantle; dal fragore di un’esplosione al vocio della gente di fuori, dal martellare dei proiettili al rombo di un aereo in volo radente il suono della realtà, spesso ostile, spesso incomprensibile, è il vero copione. Alex Garland e Ray Mendoza fanno della guerra una questione di rumore, tremendo rumore.

A un livello, viene da dire, ideologico, Warfare – Tempo di guerra cerca l’equilibrio tra enfasi retorica e rigore cronachistico. Il film democratizza il suo sguardo lasciando allo spettatore l’onore e l’onere di unire i puntini e decidere cosa fare della storia e dei suoi significati. Non si limita a registrare il reale, né fa vuota retorica. Certo, potrebbe spiegare perché si combatte e non lo fa, è un peccato; la sua filosofia è comunque coraggiosa – sarebbe più facile arroccarsi su una posizione di comodo e da lì ammonire e giudicare – ma è anche un rischio, perché espone la storia alla vulnerabilità delle strumentalizzazioni. L’unica deviazione dal copione che Alex Garland e Ray Mendoza si impongono è la dedica finale a Elliott Miller, NAVY Seal colpito nel corso del combattimento (nel film lo interpreta Cosmo Jarvis). Lo sguardo affettuoso che il film posa su di lui ne svela il senso segreto: nell’esattezza dei dettagli, ricostruire la guerra orribile (il combattimento) e ciò che di bello l’uomo riesce a metterci dentro (non lasciare indietro gli altri). Quest’ambiguità va spiegata.

Warfare – Tempo di guerra: valutazione e conclusione

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Kit Connor. Credit: Murray Close.

Come in un film di Antonioni, avvicinarsi alla verità esteriore non rende le cose più facili, anzi. Warfare – Tempo di guerra racconta anche l’ambiguità della vita. La guerra vista da dentro è un’esperienza immersiva difficile da sostenere. La spaventosa brutalità del combattimento è restituita in una miriade di dettagli, grandi e piccoli, ma c’è anche spazio per il cameratismo, la solidarietà – fra commilitoni, perché i civili sono un po’ colpevolmente trascurati dal film – la voglia di non lasciare indietro nessuno. La guerra di Alex Garland e Ray Mendoza è uno sporchissimo affare ma l’uomo, sussurrano gli autori, sembra trovarci dentro qualcosa di ipnotico, di perversamente ammaliante. Questa ambiguità pericolosa il film non la indaga, la mette in scena. Il cinema non può arrivare che a un certo grado di verità, nella sua ricostruzione. Che ci sia spinti così lontani, senza smarrire la via, è comunque impressionante.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3
Sonoro - 5
Emozione - 3

3.5