Intervista a Marco Tullio Giordana: il delitto Pasolini è un caso ancora aperto
In occasione della proiezione del film Pasolini - Un delitto italiano (1995) nelle Giornate della Luce 2025, abbiamo intervistato il regista Marco Tullio Giordana, tra influenze personali, cinema e attualità.
Cosa resta del delitto Pasolini a più di cinquant’anni dalla sua morte? Ne abbiamo parlato con l’autore Marco Tullio Giordana, regista di Pasolini – Un delitto italiano (1995), per l’occasione il film verrà presentato venerdì 13 giugno 2025 alle 20.30 a Casarsa della Delizia per il festival Le Giornate della Luce 2025, edizione che si svolge a Spilimbergo dal 7 al 15 giugno. Un festival che da dieci anni celebra il suo personale omaggio al mondo del cinema, con un occhio speciale al lavoro del direttore della fotografia, ruolo fondamentale per la riuscita di un’opera cinematografica. Marco Tullio Giordana è uno dei cineasti italiani contemporanei più importanti, con il suo cinema ha attraversato numerosi capitoli della storia d’Italia, intrecciandola sempre con racconti dal sapore più intimo e personale. Con Pasolini – Un delitto italiano, che fu presentato in concorso alla 52 edizione della Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ha ricostruito un capitolo buio della nostra storia recente, provando a fare luce sulle vicende oscure nascoste dietro la morte dello scrittore di Petrolio e Ragazzi di Vita. Nella sua lunga carriera, Giordana vanta titoli significativi, tra i molti La meglio gioventù (2003), I cento passi (2000) e Romanzo di una strage (2012). Di seguito l’intervista al regista, dove oltre al caso Pasolini si ripercorrono diverse tappe della sua filmografia fino a opinioni e pensieri sul presente.

Ci sono tante cose che vorrei chiederle, la proiezione che la vedrà coinvolta nel festival Le Giornate della Luce mi suggerisce una prima domanda, Pasolini – Un delitto italiano cinquant’anni dopo, la prima cosa che mi viene in mente da chiederle, ancor prima di parlare del delitto, della mancata verità giudiziaria, omissioni, bugie, com’era vivere al tempo di Pasolini? Può raccontare a chi Pasolini l’ha conosciuto, come me, solo attraverso i suoi libri, scritti e film, cosa significava vivere in un’Italia in cui Pasolini faceva sentire la sua voce?
“Un immenso privilegio, di cui forse non ci siamo resi ben conto al momento. In quel periodo erano tante voci autorevoli, penso a Foa, Sciascia, Moravia, Ginzburg, Morante, Calvino e tanti altri intellettuali che intervenivano nel dibattito pubblico e lo rendevano “alto”, progettuale, orientato al futuro. Niente di paragonabile a oggi, dove tutto sembra strumentale, superficiale, vacuo, elettoralistico. Personalmente, ricordo con riconoscenza la figura di Pasolini che potevo leggere come un contemporaneo perché era il più spregiudicato, innovatore, “rivoluzionario” e indifferente alle lusinghe del potere. Anche i suoi interventi più provocatori, avevano sempre una ragione profonda, poetica, senza tornaconto. È stata la figura più importante della mia formazione”.
Il cinema di Pier Paolo Pasolini è un viaggio continuo nella vita umana, inafferrabile e indecifrabile, con la sua filmografia l’autore è stato un unicum nel panorama italiano.

La materia cinematografica di Pasolini cinema viaggia continuamente tra mistero, mito, sentimenti universali, religione, oggi non dico se si potrebbe mai realizzare film così, ma si possono almeno immaginare?
“Non è facile rispondere a questa domanda perché Pasolini ha fatto film molto diversi tra loro. In un primo periodo sembrava seguire il solco della tradizione neorealista, Accattone, Mamma Roma e La ricotta e anche, in un certo senso, Uccellacci e Uccellini. Poi è seguito un periodo più “filosofico” e antiborghese come Teorema e Porcile, poi il bisogno di riferirsi ai miti originari, Medea, Edipo Re, soprattutto la Trilogia della vita, ovvero Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte… e infine l’ultimo terribile, Salò, su una strada completamente diversa. Non c’è un solo Pasolini, per questo è inimitabile. Per la vastità, la latitudine così allargata, di tutta la sua filmografia. Tra l’altro, in ognuno di questi film, c’è la scoperta di una grammatica sempre nuova, che non assomiglia a nessuna altra. Grande sperimentatore e innovatore, oggi, che tutti lo osannano senza averlo letto né visto, non gli farebbe fare neanche uno dei suoi film”.
Studiando la storia del nostro paese, specie nei suoi lati più oscuri, ci si rende conto che tanti casi della storia politica e sociale s’intrecciano come tessere di un puzzle, per stringere ancora più il campo, gli omicidi di Mattei, Pasolini e Mauro de Mauro sembrano avere un filo comune?
“Si può azzardare un pensiero così, certo. Bisognerebbe però trovare le prove di questi omicidi, dare l’indicazione precisa delle responsabilità giudiziarie. Io ho cercato di farlo con il mio film su Pasolini, ma non credo di esserci riuscito. Soprattutto, ho avuto la sensazione allora, nel 1995, che il film cadesse in un paese che non era pronto, forse nemmeno interessato. a capire la storia anche recente del nostro paese. Un paese che non coltiva la sua memoria, se ne disinteressa e che trova perfino noiosi quella che la cercano, questa è la mia sensazione da allora. Temo che le cose siano addirittura peggiorate“.
È un delitto ancora aperto, lei crede che si possa giungere finalmente alla verità?
“In tutta sincerità penso di no. Dicevo prima, senza voler essere apocalittico, che allora l’autorità giudiziaria, gli investigatori, i governi, sembravano più interessati a occultare che a scoprire e spiegare. Oggi è anche peggio: c’è una propensione a ingabbiare l’informazione, pilotarla, intimidirla… e quindi figuriamoci se a qualcuno può interessare la verità sui casi irrisolti. Penso anche che non è solo responsabilità dei governi, ma anche di un’opinione pubblica rassegnata e fatalista. Lo prova anche il disinteresse ogni volta che ci sono le elezioni. È un paese che non vuole neanche più esprimere le proprie opinioni, sempre che ne abbia ancora. Sfiduciato e indifferente”.
Marco Tullio Giordana è un regista che attraverso il passato interroga il presente, ogni suo film nasconde uno sguardo rivelatore sulla società che ci circonda.
Due giorni fa l’italiani sono stati chiamati alle urne per il referendum dell’8 e 9 giugno, il quorum non è stato raggiunto, l’affluenza è stata del 30,6 %, cosa possiamo dedurne da questo risultato?
“Sono andato a votare, ed ero il solo nel seggio. Dopo di me è arrivato solo un altro ragazzo. Nell’aula c’era questa tavolata di scrutatori giovanissimi, una presidente di sezione anche lei giovane. Li ho ringraziati per il loro lavoro, la disponibilità a essere lì, ma ho sentito anche in loro una certa disillusione. È un gesto così piccolo, non comporta una gran fatica segnare una scheda! Neanche quello… molto sconfortante. È vero anche che questi quesiti erano formulati in maniera incomprensibili… quindi mi chiedo anche che senso abbia sfidare il buon senso e intraprendere battaglie inutili e perdenti. D’accordo che la battaglia va intrapresa, che bisogna dimostrare il proprio senso civico, ma devo associarmi alla sensazione di quei ragazzi di sentirsi soli”.
Quantomeno interrogarsi…C’è secondo lei la volontà di comprendersi su quello che siamo, non solo come individui ma come società?
“C’è una parte della società, e io direi che tutti i giovani sono questa parte, che naturalmente si interroga sul proprio futuro. Io non credo alla favola dei giovani che sono completamente sbandati, attaccati al telefonino. Ma c’è tutto il resto della società che ha deciso di convivere con lo status quo, di venire a patti, di non disturbare i manovratori, di scavarsi la sua piccola protezione e di stare zitti. Però la gran parte, per non dire tutti i giovani, sono questo movimento che vorrebbe cambiare le cose. E che cerca una sponda, ma non lo trova nei partiti, non lo trova nei leader attuali, che sembrano tutti delle figure vanitose e non certo, per tornare al nostro Pasolini, delle figure interessate al futuro e alla società”.
Cambiando un attimo tema…
“Si cambiamolo (ride, ndr).“
Altrimenti ci intristiamo troppo.
“Esatto, rischiamo di intristirci.“
Nel suo ultimo film La vita accanto (2024) si combatte continuamente questo senso di diversità percepita; alle volte la paura del giudizio, come quello della madre Maria, non corrisponde alla realtà dei fatti. Quanto questi sentimenti possono contaminare e condizionare nelle vostre vite, magari congelandoci in uno stato alterato?

“L’influenza del primo sguardo che uno riceve, quello della famiglia, della madre, è come hai detto fondamentale nella percezione di sé stesso. È il vero specchio in cui riflettersi. Poi questo sguardo viene amplificato appena iniziamo ad avere una vita sociale, la scuola, come ci vedono gli altri. Però è uno specchio deformante, perché non è preciso, e poi cambia di continuo. Poi ne abbiamo una percezione cristallizzata, implacabile, è molto difficile riuscire a liberarsene. Ci vuole molto tempo, anche a capire che bisogna liberarsene. Il film parlava proprio di questo, questo immenso obbligo e fedina penale che lo sguardo altrui pone alla tua vita”.
Non è facile sicuramente, bisogna acquisire maggiore consapevolezza, e forse anche un po’ di dolore?
“Assolutamente, non un po’…tantissimo! Tutta l’adolescenza, è proprio questo. La vedo anche oggi, non si chiama ancora depressione, però è una sorta di infelicità senza prospettiva. La sensazione è che questo sentimento si commuti in aggressività, può dirigersi o contro sé stessi, con tendenze suicidarie, oppure un’aggressività verso gli altri.“
Lei nella sua lunga carriera ha raccontato tanto non solo della nostra Storia nazionale con la S maiuscola, ma anche storie dal sapore più intimo, come La vita accanto (2024), Nome di donna (2018), Yara (2021), c’è oggi una storia, un fatto, un aspetto del nostro presente che vuole raccontare di più ? Che cosa le manca raccontare?
“Mi mancano tantissime cose. Come i progetti mai realizzati, non fatti. Dici bene, sono le piccole storie quelle che mi interessano veramente. Perché posso parlare delle persone che mi sono care e se vuoi, anche molto indirettamente di me stesso. La grande storia è sempre sullo sfondo, dietro di noi, ma è come una quinta. A me quello che interessa sono i personaggi, sono le storie personali. Anche perché questo mi permette un lavoro, insieme agli attori di scavo. Invece se uno vuole fare dei film così didattici, che non è il mio caso, gli attori sono delle pure funzioni. Ma devono essere portatori di un pensiero altrui, altrimenti non è emozionante, non è poetico”.
La prossima domanda si intreccia con la mia formazione cinematografica, tra i primi film di cui ho ricordo nella mia vita, c’è I cento passi, da piccolo il monologo sulla bellezza di Peppino Impastato ha contribuito a formare la mia visione della vita, rimasi colpito da quella predisposizione dell’anima di Peppino che oltre al senso della giustizia insegnava il rispetto e il valore della vita, la bellezza come luogo in cui rifugiarsi, oggi rispetto ad allora vede più o meno questa bellezza?

“In me personalmente non è mai sfiorata. Se lo vedo applicato nella società, credo che la bellezza venga offesa continuamente, non c’è rispetto per la prima cosa che dovremmo amare, che è la natura, l’ambiente, il paesaggio, l’agricoltura, i frutti della terra, l’atmosfera. Questo è il problema centrale, che poi sono diventate le guerre. La vera epidemia di oggi non è il covid, ma la guerra. La bellezza sarebbe il grande antidoto, perché chi ama la bellezza, l’arte, chi la vede è come se non avesse più bisogno di un’altra religione. La conterrebbe dentro di sé questo istinto, forse sarebbe più compassionevole con gli altri”.
Si ricorda le emozioni della notte che precedeva il suo primo film Maledetti vi amerò del 1980?
“La notte prima mi ricordo benissimo. Feci un sogno premonitore, io ho perso mio padre quando avevo 8 anni. E la notte prima di girare il mio primo film l’ho sognato che mi diceva “grazie, torno a vivere”. Pensa te che sogno pazzesco. Poi l’esperienza del set io non ne avevo mai fatta prima, nel senso che non avevo fatto mai l’aiuto regia ecc., si parlava tanto di una crisi nel settore. Avevo a disposizione solo quattro settimane, avevo dei bravi attori ai quali non sapevo neanche come rivolgermi, da alcuni ne ero anche intimidito, come Flavio Bucci. Uomo difficile, ma generosissimo. Però ci amavamo molto, sul set ci siamo voluti bene. Ricordo che mi fosse naturale fare qualche errore di tecnica, ma tutti mi avevano preso a cuore. Ricordo il capo elettricista che mi disse: “Marco Tullio non facciamo il dettaglio, andiamo prima sui piani larghi”.
Lei invece ha voluto iniziare da un’inquadratura che solitamente si fa alla fine?
“Esatto. Il capo elettricista mi disse: “che curioso modo di girare”. Io volevo iniziare con un dettaglio di un cassetto. Mentre gli altri facevano prima il totale, poi il campo medio, i primi piani e poi alla fine i dettagli.“
Era il “suo” sguardo?
“Si, alla fine ho fatto come volevo io. Bisogna sempre seguire la propria strada. Il cinema poi è un’arte collettiva, è bello accettare i consigli della troupe, di tutti. Bisogna essere generosi con chi condivide il lavoro con noi sul set. Altrimenti da soli non si fa nulla. Ma se sei convinto devi seguire la tua intuizione”.