Karate Kid – Legends: recensione del film con Jackie Chan

Ralph Macchio e Jackie Chan, il passato e il presente, canone e reboot, i vivi e i morti (Pat Morita) si incontrano nel nuovo capitolo del franchise. Karate Kid: Legends arriva nelle sale italiane il 5 giugno 2025.

Dipanare la matassa di Karate Kid: Legends, regia di Jonathan Entwistle e in sala in Italia dal 5 giugno 2025 per Eagle Pictures, non è facile. È il sesto capitolo della saga cominciata nel 1984 con l’ormai leggendario film di John G. Avildsen. Ne seguono altri tre; in questo senso, Karate Kid: Legends prosegue il discorso dei quattro originali. È il sequel diretto di The Karate Kid (2010), che però è un reboot; è proprio tramite il film del 2025 che il capitolo precedente trova la giusta collocazione. È una storia che arriva dopo la conclusione di Cobra Kai, serie Tv spin-off su Netflix che per la verità non si ricollega al film, ma ne condivide immaginario e filosofia. In sintesi, se Karate Kid: Legends esiste è anche grazie a Cobra Kai.

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Cosa è lecito attendersi da un simile minestrone di storie, universi e personaggi? Il film di Jonathan Entwistle ha troppi personaggi più o meno iconici, troppe linee narrative da soddisfare, un passato ingombrante da omaggiare – e a farne le spese ovviamente è il presente – e idee interessanti, ma non il tempo di approfondirle. Tutto vero, tutto giusto. Nonostante i limiti, il film scavalca le sue imperfezioni e, zoppicando un po’, funziona, perché fa due cose (giuste) che gli consentono di non smarrire la strada: mette in scena della buona azione e preserva la purezza della formula. Bello il cast; il volto più famoso è, ovviamente, quello di Jackie Chan.

Karate Kid – Legends: storia di allievi e di maestri, tra la Cina e New York

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Cosa deve fare, Karate Kid: Legends, per innovare, senza tradirla, la formula di un franchise che – ce lo dimostra Cobra Kai – tiene botta con gli inevitabili alti e bassi da più di quarant’anni? Vale la pena di scoprirlo un passo dopo l’altro. Prima di tutto, serve un giovane protagonista; si chiama Li Fong (Ben Wang), è un adolescente cinese ma ha studiato inglese e non ha troppi problemi di ambientamento quando, per un’offerta di lavoro ricevuta dalla mamma (Ming-Na Wen), si trasferisce a Manhattan. Li Fong è un prodigio del kung fu, ma la madre gli ha fatto promettere di non combattere più. C’è una ragione, legata al doloroso passato di entrambi.

Fino a qui tutto bene, ma non basta. Il format richiede altri tre step. Cominciamo dal primo: amici e nemici. Gli amici sono Mia (Sadie Stanley) e suo padre Victor (Joshua Jackson). Gestiscono una pizzeria, Victor è un ex puglie ed è in un grosso guaio con uno strozzino, O’Shea (Tim Rozon). Ha voglia di rimettersi i guantoni, deve fare un po’ di soldi e, colpito dal talento del ragazzo – ovviamente Li Fong non mantiene la promessa fatta alla madre e combatte – gli chiede di fargli da trainer per il ritorno sul ring. Li Fong accetta, ma le cose non vanno per il verso giusto. Ecco il terzo step: il giovane protagonista, per risolvere i suoi problemi e aiutare gli amici – Mia è anche un interesse romantico – deve combattere in prima persona per farla pagare al bullo locale – Conor Day (Aramis Knight), cattivissimo allievo di O’Shea – ma ha bisogno di un maestro. Trova due maestri, anzi tre, se consideriamo il volto più amato del franchise. Nel film c’è solo a livello spirituale, ma la sua presenza si sente eccome.

Il primo maestro è mr. Han (Jackie Chan). Arriva dal reboot del 2010, non fa parte della storyline originale, è l’insegnante a Pechino di Li Fong ed è “casualmente” a New York per prendersi cura del ragazzo. Han è un insegnante di kung fu. Per battere Conor, Li deve espandere le sue abilità con il karate. E dal momento che il più caro amico e collega di Han, il maestro Miyagi (Pat Morita), è morto anni prima, Han si rivolge all’allievo prediletto di Miyagi, al depositario della sua tecnica prodigiosa, al protagonista indiscusso del franchise, l’unico e solo karate kid: Daniel LaRusso (Ralph Macchio). Dall’incontro tra passato e presente, dal mix di karate e kung fu, dal matrimonio tra la vocazione apocrifa della saga (Jackie Chan) e il canone (Ralph Macchio), Li Fong dovrà trovare la forza di sconfiggere il nemico – si combatte sulla terrazza di un grattacielo di Manhattan – e, insieme, aiutare il franchise a proiettarsi nel futuro.

Azione e sentimento vs. i difetti dei moderni franchise. Chi vince?

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Non è facile, per Jonathan Entwistle, navigare queste acque. C’è tanto, a monte di Karate Kid: Legends, perché la coerenza sia un obiettivo ragionevole. Dovendo legare quattro film canonici all’apocrifo reboot senza tradire lo spirito dello spin-off (!), lo script firmato Ron Lieber risulta in un (estremamente) macchinoso groviglio di linee narrative convulse sorrette da caratterizzazioni zoppicanti. Non è un problema per Ralph Macchio e Jackie Chan; nel film portano, il primo, l’eredità iconica del franchise, il secondo, il lavoro sul reboot e il profilo di leggenda cinematografica dell’action. Si salvano anche Ben Wang e (in parte) Sadie Stanley, perché il loro percorso narrativo è troppo centrale per risentire della densità squilibrata del film.

Il problema è per i margini della storia, riguarda Aramis Knight e il suo cattivo convincente nell’azione ma bidimensionale nella psicologia; non gli è consentito sviluppare cause e motivazioni della sua tossicità di villain e, a parte una frettolosa evoluzione sul finale, non cambia. Peggio va a Joshua Jackson. La storia sembra interessarsi sul serio alla traiettoria del vecchio pugile che, per rimettersi in sesto, chiede aiuto alla giovane promessa. Era l’idea più interessante del film, ribaltare l’assunto allievo-maestro invertendo l’anagrafe dei ruoli. Dura poco l’interesse del film per questa storyline. È immediatamente accantonata, per favorire il ritorno in scena dei protagonisti storici.

Karate Kid: Legends prende in prestito alcuni difetti ai franchise odierni. Non gestisce bene la sua serialità, troppo interessato a riempire la storia di richiami al passato e poco preoccupato di costruire una narrazione solida e coerente. Sfrutta la nostalgia per quel che di superficiale può offrire, come amo di marketing e valore in se stesso, senza inscenare un rapporto più provocatorio con l’eredità del franchise. Funziona lo stesso, perché a monte dei difetti strutturali – che riguardano più il modo di pensare il cinema commerciale contemporaneo che la saga – fa due cose per bene.
Primo, non tradisce la purezza della formula: un giovane sopraffatto dai bulli sconfigge il cattivo grazie al suo cuore d’oro e all’aiuto di tre maestri, animato da finalità idealistiche e non da volontà di sopraffazione, conquistando il cuore della ragazza che ama. Secondo, mette al centro di tutto l’energia, la plasticità, la vitalità del combattimento. L’idea di coniugare karate e kung fu per partorire una terza via – l’albero dai tanti rami ma da un solo tronco cui allude il film – è una delle tante piste accennate e poi trascurate dalla storia, ma ne svela il cuore: intrecciare azione e sentimento. C’è tanto della prima e abbastanza del secondo, qui, per sorvolare sui difetti.

Karate Kid – Legends: valutazione e conclusione

Jackie Chan e Ralph Macchio portano in scena due diversi tipi di carisma. Il primo espresso nella riconoscibilità iconica di un certo modo di fare cinema d’azione. Il secondo pescato nell’eredità della saga, e nel toccante richiamo al lascito di Pat Morita/ Miyagi, assente giustificato perché scomparso nel 2005. I due sanno gestire con la giusta dose di autoironia e sentimenti il loro passaggio nel film, e si intrecciano bene con la voglia di fare del giovane Ben Wang.
Jonathan Entwistle gira, con Karate Kid: Legends, un sequel che non aggiunge né toglie nulla all’equazione del franchise, mantenendo inalterati i termini della formula – l’azione, l’idealismo dei motivi, il rapporto allievo maestro, la leggerezza di tocco – ma ricordando che il focus di questo tipo di storia è sulla purezza della formula, sul brio dell’azione e la dignità dei sentimenti. Le strizzatine d’occhio al passato della saga, la riluttanza a essere davvero originali testimoniano dell’impasse creativa e della scarsa lungimiranza delle politiche degli studios. Ma ci sono ricompense, nell’energia e nella leggerezza della storia, che possono aiutare lo spettatore a guardare oltre.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 3
Sonoro - 2.5
Emozione - 3

2.7