5 registi che hanno raccontato New York al cinema

Dalla frenesia di Manhattan ai sogni di Brooklyn, scopri i registi che hanno trasformato New York in un personaggio vivo e pulsante del grande schermo.

New York non è solo una città: è un simbolo, un microcosmo di emozioni, culture e contraddizioni. Non sorprende quindi che da sempre affascini registi di tutto il mondo, che hanno trasformato la Grande Mela in uno dei set urbani più iconici della storia del cinema. Ma quali sono i registi che hanno saputo catturare l’essenza della Grande Mela, trasformandola in un vero e proprio personaggio cinematografico? Andiamo a scoprire quei maestri che ha hanno raccontato al meglio la città e, di conseguenza, i film migliori ambientati a New York.

1. Woody Allen e Manhattan: la New York romantica e nevrotica

Woody Allen ha fatto di New York una cartolina intellettuale, ironica, nevrotica. Nato nel Bronx nel 1935 e cresciuto a Brooklyn, ha ambientato la maggior parte dei suoi film a Manhattan, spesso nei quartieri più borghesi e artisticamente attivi. Ma dietro i caffè letterari, i musei e gli appartamenti eleganti, Allen ha sempre scavato nei turbamenti interiori dei suoi personaggi. Quello che per molti aspetti è il suo capolavoro, Manhattan (1979), girato in un elegante bianco e nero da Gordon Willis, è la sua più palese dichiarazione d’amore alla città. Con le note di Gershwin in sottofondo, Allen la descrive come “una città romantica, piena di musica e di film e di arte e letteratura e di bellezza e sensualità.” Eppure, sotto questa superficie raffinata, c’è sempre il dubbio, la crisi esistenziale, l’autoironia. In Io e Annie (1977), la città diventa lo spazio della relazione: incontri, dialoghi, nevrosi, separazioni. In Hannah e le sue sorelle (1986) e Crimini e misfatti (1989), Manhattan assume un tono più introspettivo e moralmente ambiguo. I protagonisti non combattono per sopravvivere, ma per trovare un senso, un equilibrio emotivo in una città che non dorme mai. Woody Allen ha trasformato New York in un simbolo dell’identità borghese, dell’insicurezza affettiva e della ricerca di bellezza in mezzo al caos. Una città che non è mai soltanto cornice, ma risonanza dell’animo umano, tra una visione mestamente romantica, nostalgica e le nevrosi alleniane

2. Martin Scorsese: New York teatro di redenzione e dannazione

Per Martin Scorsese, New York è sangue, fede, colpa e redenzione. Nato nel 1942 a Queens e cresciuto nella Little Italy di Manhattan, ha trasformato le sue radici italiane e cattoliche in materiale cinematografico. Scorsese non si limita a usare New York come sfondo: la città è il contesto sociale, culturale e spirituale in cui si agitano i suoi personaggi tormentati. In Mean Streets (1973), suo primo capolavoro, girato in gran parte nei luoghi della sua infanzia, Scorsese racconta i codici d’onore della microcriminalità e l’impossibilità di espiare la colpa in una società corrosa dalla violenza. Con Taxi Driver (1976) la città diventa un inferno notturno popolato da anime perdute, vista attraverso gli occhi disturbati di Travis Bickle: uno dei ritratti più cupi mai realizzati sulla solitudine urbana. Gangs of New York (2002), invece, guarda alle origini violente della città nel XIX secolo, ponendo le basi storiche della brutalità che Scorsese ha sempre rappresentato. Nel bellissimo e mai troppo ricordato Al di la della vita (1999), la New York notturna fa da sfondo, come una città involucro di fantasmi, alle vicende di un paramedico tormentato dal suo lavoro e da una dolorosa perdita. Anche in The Wolf of Wall Street (2013), uno dei film ambientati a New York, la Grande Mela è centrale, ma qui lo sguardo si sposta: non più sobborghi e degrado, ma uffici scintillanti, broker corrotti, e una Wall Street che si trasforma in una giungla morale dove l’avidità è la nuova religione. Per Scorsese, New York è il teatro delle passioni umane più forti: il sacro e il profano, il desiderio di ascesa e la dannazione.

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3. Abel Ferrara: il lato oscuro di New York

Un altro autore importante che ha raccontato con uno sguardo personale New York al cinema è certamente Abel Ferrara. Nato nel Bronx nel 1951, Ferrara ha sempre cercato la verità sporca e disturbante che si annida sotto la superficie della città. Il suo cinema non è patinato, né nostalgico. È un grido dolente, urlato nel cuore della notte. Con il suo capolavoro Il cattivo tenente (1992), Ferrara sprofonda nella psiche di un poliziotto corrotto e tossicodipendente (interpretato da un magistrale Harvey Keitel) che vaga tra le strade di una New York in decomposizione morale, alla ricerca di una grazia forse impossibile, indagando sul caso di una suora stuprata. Lo stesso senso di tormento interiore attraversa The Addiction (1995), horror filosofico girato in bianco e nero nel Greenwich Village, dove la sete di sangue di una giovane vampira diventa metafora della colpa originale e del male come malattia esistenziale che permea l’umanità. Ma il viaggio oscuro di Ferrara nella città inizia già con Driller Killer (1979), film underground girato tra il Lower East Side e i loft degli artisti poveri, in cui un pittore squattrinato si trasforma in serial killer. Una pellicola ruvida, urbana, quasi punk, in perfetta sintonia con il degrado sociale della New York del decennio. Poi arriva L’angelo della vendetta (1981), storia di una giovane donna muta che, dopo essere stata stuprata due volte nella stessa giornata, si trasforma in una giustiziera silenziosa e implacabile. Le sue camminate armate tra i vicoli e le strade di Manhattan sono una danza vendicativa contro una metropoli violenta e indifferente. Con King of New York (1990), Ferrara fonde il noir urbano con l’epica gangster, dipingendo una città notturna dominata dal carisma ambiguo di Christopher Walken. La sua New York è viva di luci fredde, club hip-hop, hotel fatiscenti e anime alla deriva. Per Ferrara, New York al cinema non è mai neutra: è un organismo vivo, ammalato, a volte spirituale, ma sempre in conflitto con se stessa. È l’inferno e il monastero, la tentazione e la salvezza.

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4. Sidney Lumet: etica e giustizia nella New York dei tribunali

Per Sidney Lumet, New York non è mai solo uno sfondo, ma una coscienza collettiva. Nato a Philadelphia ma cresciuto proprio a New York, Lumet ha ambientato buona parte dei suoi film nella metropoli che conosceva meglio di chiunque altro. La sua macchina da presa cammina nei tribunali, nei commissariati, nei quartieri popolari e nei palazzi del potere con una naturalezza rara, quasi documentaria. Ma ciò che davvero rende unica la sua New York al cinema è la tensione morale che la attraversa.
Già con il suo folgorante esordio, La parola ai giurati (1957), pur girato quasi interamente in interni, Lumet impone uno sguardo urbano: la città come luogo di responsabilità civica, dove ogni individuo è chiamato a confrontarsi con la verità e la giustizia. In Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975), ambientato a Brooklyn, racconta una rapina maldestra che si trasforma in un circo mediatico e in un grido disperato di umanità. Qui, come in Serpico (1973) e Il principe della città (1981), Lumet scandaglia le crepe del sistema, indagando la corruzione, l’ideale tradito e il peso delle scelte personali in una città sempre sul filo. Con Onora il padre e la madre (2007), il suo ultimo film, torna a una New York più fredda, moderna, dove il tessuto familiare si sfalda tra centri commerciali e ville di periferia. Anche qui, la città è specchio di una tragedia morale inevitabile. Sidney Lumet ha raccontato New York con la precisione di un cronista. La sua metropoli è fatta di individui messi alla prova, tribunali affollati, palazzi logori, e battaglie silenziose combattute dentro l’anima. In ogni angolo dei suoi film, la città si interroga, accusa, perdona.

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5. Spike Lee: New York tra rabbia e orgoglio

Per Spike Lee, Brooklyn è casa. Ma non è solo un quartiere: è il cuore pulsante di un’identità afroamericana che lotta per essere ascoltata. Nato ad Atlanta ma cresciuto a Fort Greene, Lee ha trasformato il suo cinema in una dichiarazione politica continua, utilizzando le strade, i muri e le voci di Brooklyn per parlare di razzismo sistemico, orgoglio culturale e tensioni sociali. Il suo capolavoro, Fa’ la cosa giusta (1989), è ambientato tutto in una sola giornata torrida nel quartiere di Bed-Stuy: una bomba a orologeria razziale pronta ad esplodere. Lee mette in scena un microcosmo di un’America divisa, dove ogni angolo diventa terreno di confronto tra culture, rabbia e incomprensioni. Non è solo una storia, è un manifesto. Anche in Clockers (1995), Crooklyn (1994) e He Got Game (1998), Brooklyn si fa teatro di conflitti generazionali, fallimenti scolastici, aspirazioni frustrate e padri assenti. Lee esplora l’umanità complessa della comunità nera senza edulcorare né mitizzare, ma mostrando con lucidità affettuosa la bellezza e la frustrazione del vivere ai margini. Spike Lee filma Brooklyn con le sue contraddizioni, i suoi odori, la sua musica, attraverso un mix di jazz, hip-hop e silenzi carichi di significato. La sua New York è un campo di battaglia civile, ma anche una fucina di resistenza e orgoglio nero. Con La 25^ ora (2002), girato a New York poco dopo l’11 settembre, Lee offre uno dei ritratti più malinconici della New York post-attacco: una città ferita ma resiliente, filmata con amore e dolore. Per Spike Lee, New York è un atto politico, una dichiarazione d’identità, una sinfonia di voci che chiedono ascolto.

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