The Legend of Ochi: recensione del film di Isaiah Saxon
The Legend of Ochi, in sala dall'8 maggio 2025, è un coming of age epico e intimo, spettacolare e artigianale. Con Helena Zengel, Willem Dafoe, Emily Watson e Finn Wolfhard, regia di Isaiah Saxon.
Dal Sundance Film Festival all’uscita italiana il passo è (finalmente) breve: The Legend of Ochi, scritto e diretto da Isaiah Saxon, arriva da noi l’8 maggio 2025 per I Wonder Pictures, a meno di quattro mesi dal debutto americano. È un fantasy e un racconto di formazione, epico e intimo, debitore di una notevole parte della sua ispirazione ai classici del cinema per ragazzi degli anni ’80 – da E.T. ai Goonies ma non solo, la lista è lunghetta – e, soprattutto, è una rarità: un film per tutta la famiglia made in A24. Della casa, nume tutelare e icona pop del cinema indipendente americano, The Legend of Ochi ha il look pregevole, un certo spessore tematico e un gran bel cast. Oltre alla protagonista Helena Zengel, non bisogna scordarsi di Finn Wolfhard (Stranger Things), Willem Dafoe e Emily Watson. E degli Ochi, ovviamente.
The Legend of Ochi o, per essere più precisi: il pupazzo e la ragazza

A Isaiah Saxon piace il cinema com’era una volta: tattile, analogico, carnale. The Legend of Ochi ha un budget di sì e no 10 milioni e nella semplicità artigianale delle premesse c’è ben in vista il rifiuto ideologico per il cinema spettacolare com’è di moda intenderlo oggi, impalpabile – non solo perché digitale – caotico, seriale e fracassone. Senza sopravvalutarne i meriti, il film prova – e nel complesso riesce – a combinare le sue influenze in un epico coming of age sottilmente aperto alle novità ma non indifferente all’eredità di ieri. A volte, anche il più sfacciato richiamo al passato può sembrare una ventata di freschezza. Vale per gli Ochi, le misteriose creature – amiche o nemiche, è tutto da scoprire – che, altrove, sarebbero state un asettico prodigio in CGI mentre qui sono una faccenda terribilmente concreta. Il piccolo coprotagonista è un pupazzo manovrato da un team da animatori. Per gli adulti, è anche più radicale: una tuta fisica, e dentro la tuta, un attore.
Questa è una metà della storia. Per capire bene il film, bisogna partire dall’altro versante, l’umano. Siamo su un’isola lontana lontana chiamata Carpathia. Yuri (Helena Zengel) vive in una baita tra le montagne insieme al poco raccomandabile papà Maxim (Willem Dafoe) e a Petro (Finn Wolfhard). Maxim non dedica molte attenzioni alla figlia, trascorre la maggior parte del tempo con Petro e un’armata Brancaleone di ragazzini che dirige in incursioni contro gli Ochi nascosti nelle foreste lì intorno. I locali odiano gli Ochi, e Maxim cerca di instillare nel petto e nei cuori dei giovani un feroce sentimento sterminatore. Un giorno Yuri incontra un piccolo Ochi nel bosco, lo prende con sé, fa amicizia, scopre che non c’è niente di cui preoccuparsi e scappa di casa alla ricerca di sua madre (Emily Watson), che tanti anni prima aveva mollato la famiglia per studiare gli Ochi e i loro misteriosi rituali musicali.
The Legend of Ochi costruisce il suo viaggio dell’eroe (dell’eroina) rinfrescando le pareti, sacrificando l’azione (tranne in parte con l’incipit e il finale) in favore di un mood più contemplativo. È cinema d’atmosfera, dal ritmo ovattato e onirico, con la pazienza di guadarsi attorno per indagare la meraviglia del mondo, senza cercare il rumore a tutti i costi. Il senso della misura non ha sempre la meglio: la bella colonna sonora di David Longstreth, tra maestose esplosioni orchestrali e sonorità più intime (il mondo degli Ochi) è presente, molto presente, forse troppo presente. Ma il messaggio di Isaiah Saxon è chiaro: bisogna lavorare sulla tecnica del cinema, sull’immagine, il suono, l’atmosfera, per parlare delle cose con un linguaggio nuovo.
Un nuovo linguaggio, che però guarda anche al passato

Il linguaggio è la chiave. Il filo rosso di The Legend of Ochi è il rifiuto dei metodi convenzionali di comunicazione in favore di un nuovo linguaggio e un modo diverso di pensare e costruire la vita. Helena Zengel incarna la filosofia del film in maniera rigorosa. Yuri parla poco. Fa rumore con i suoi silenzi, con il black metal ascoltato a palla in camera, adottando la strana lingua degli Ochi che impara dopo esser stata morsa accidentalmente del nuovo amico e aver sfiorato la morte (una traiettoria dal contenuto fortemente simbolico). Yuri abbandona la casa di suo padre e non cerca rifugio in quella della madre: sono gli Ochi la meta, e da loro impara una nuova lingua, su misura e diversa da tutto il resto. Forse al film mancano il tempo e lo spazio necessari a instaurare la giusta reciprocità, insegnando agli Ochi a parlare con le parole degli umani, ma il senso della storia è inalterato: bisogna cercare nuove forme per affrontare i soliti vecchi problemi.
The Legend of Ochi non è un film perfetto. Cerca di mettere in piedi il suo spettacolo sacrificando l’azione in favore di un’atmosfera rarefatta e un’emozione purissima; il ritmo a volte incespica. Non ha tempo e modo per coltivare lo sviluppo di tutti i personaggi, specie i comprimari, ma se va meglio ai genitori Willem Dafoe e Emily Watson, perché loro funzionano come le emblematiche incarnazioni di due approcci molto diversi, la via della forza (lui) e della conoscenza (lei), non può dirsi lo stesso per l’abbastanza trascurato – dalla storia – Finn Wolfhard. Questo succede perché il film parla di tante cose – famiglie spezzate, violenza vs. dialogo, difficoltà di comunicazione e i modi di superarla – e il tempo non basta mai. Ma la sua forza è altrove.
È nel cinema, il cinema puro, quello che torna alle radici, che parla di solidarietà e confronto con l’altro/a combinando tecnica, emozione, suono e immagine. L’immagine è la fotografia lussureggiante di Evan Prosofsky: calorosa, esuberante ma ancorata alla realtà. Spiega Isaiah Saxon che gli obiettivi della macchina da presa, scelti ad hoc, risalgono agli anni ’30, e in effetti il film ha il sapore, o sarebbe meglio dire riscopre le vibes, di un mondo e un cinema di genere che non ci sono più; dall’attrito tra l’anzianità dei mezzi e la modernità della confezione viene fuori un interessante anacronismo. The Legend of Ochi è un accorato appello a riportare il discorso all’abc, alla dimensione artigianale del cinema. Un cinema di carne, di corpi, di pupazzi, di piccole e grandi cose concrete che si sforzano di afferrare lo stupore della vita. Partire dalle cose tangibili, per arrivare alle immateriali. Se volete, la morale della favola è tutta qui.
The Legend of Ochi: valutazione e conclusione

Isaiah Saxon è un debuttante…non debuttante. Per il filmaker americano, che ha un solido passato nei corti e nei video musicali – ha collaborato, tra gli altri, con i Panda Bear e Björk – The Legend of Ochi è l’esordio nei lungometraggi, e come tutti i debutti volenterosi e creativi ha il merito di un’ambizione forte e il limite di non armonizzare le sue influenze in un tutto organico e pienamente originale. C’è la creatività sfrenata di Michel Gondry, il surrealismo formalmente inappuntabile di Spike Jonze, la famiglia al centro della storia e un’amicizia umano-non umano di chiara matrice spielberghiana (E.T.), l’epica fantasy su misura di ragazzo/a (La storia infinita, I Goonies), misteriose creaure (Gremlins) e una fotografia che strizza l’occhio all’età d’oro del cinema di genere americano. Se la visione non può dirsi del tutto originale, a compensare l’imperfezione di The Legend of Ochi – il tempo e l’esperienza affineranno la voce del suo autore – c’è il respiro largo di un film che si affida alla magia del cinema, alla tecnica, alla nobiltà dell’artigianato, per partorire un’emozione non asettica, ma carnale, tangibile.