My Fair Lady: recensione

Eliza Doolitle (Audrey Hepburn) è una popolana che vende viole per strada: è scurrile, irascibile e non sa rapportarsi in modo consono con le persone. My Fair Lady (1964) diretto da George Cukor, trova le sue basi drammatiche nel musical del 1956 di Alan Jay Lerner e Frederic Loewe, a sua volta ispirato dal Pigmalione di George Bernard Shaw.

My Fair Lady: l’epica sintesi di Hollywood con Audrey Hepburn e Rex Harrison

Eliza è una ragazza poco più che ventenne che subisce le angherie da despota onnipotente del professor Henry Higgins (Rex Harrison) che nota in lei, fuori da un teatro, quel suo essere sguaiata, rozza e inadatta ad un ambiente regale; da ciò avanza l’insulso desiderio proposto al suo compare, il colonnello Pickering (Wilfrid Hyde-White), che la vedrebbe per mano sua e dei suoi studi fonetici, trasformata da ultima donna da marciapiede a brillante signora svuotata di ogni personalità, ma con i modi per esserlo. Un modo come un altro per smorzare il loro quotidiano cadenzato da studi glottologici e dialettici, un gioco psicologico e didattico dal quale poter ricavare poco più di una stretta di mano e l’orgoglio di una scommessa portata avanti e vinta.

my fair lady

Se ci fosse un modo per far incontrare Anna Magnani e Mr Darcy il luogo ideale sarebbe tra le tessiture di Fair Lady: lei popolana del sottosuolo, delicata e innocente come le sue viole, lui misantropo bourgeois con la sua dialettica forte e i suoi ricami psicologici misurati e succubi di quel mondo asservito alle tende dei teatri, alla cortesia senza ritegno, lui è un fuoco che non arde, appartiene ad un mondo immobile che non sa da che parte rifugiarsi per prendere aria.

I fiori che si vendono per strada, appartengono a quel mercato che non ha conosciuto tramonti o rivali reali che si possano paragonare: essi assumono un sapore piuttosto funesto qui, o meglio il loro odore parrebbe senza eguali e con una carica rediviva, ma quello a cui somigliano e che la pellicola finisce per appiattire è la subordinazione che un oggetto che ha le fattezze di un qualcosa di bello e puro, che non ha bisogno di ulteriori aggiunte, finisca con l’essere sottomesso e defraudato della sua singolarità poiché stretti nelle mani di una grossolana e volgare donna di popolo. Come lei stessa poi si troverà ad essere: un oggetto nelle mani della strada prima e un oggetto nelle mani del professore dopo, un fiore che troverà la sua essenza per mano della glottologia e delle buone maniere, ma con un’anima profondamente radicata in entrambe le sue peculiari attitudini da donna altolocata e remissiva e da scricciolo del volgo.

my fair lady

Le scene e i costumi sono curati da Cecil Beaton, che fa un uso geniale del cromatismo mai troppo disarcionato o inusuale, soprattutto nel tratteggiare il solco profondo che scherma aristocrazia e proletariato, una memoria che svelle le vesti semplici ma differenti da un lato e una realtà quale quella alto borghese che non saprebbe differenziarsi nemmeno in un prato sempreverde, l’immobilità di alcune scene che sembra che abbiano gran necessità di una scossa, un fulmine, un arpione ad infilzarne l’apatia.

My Fair Lady: il musical controcorrente in cui Anna Magnani e Mr Darcy (idealmente) si incontrano 

Uno degli elementi più curiosi è che la Hepburn non ha cantato le sue canzoni, per la maggior parte delle volte è Marni Nixon a farlo. Anche se My Fair Lady è stato nominato per 12 premi Oscar e ne vinse otto (tra cui miglior film, attore, regista e cinematografia),donna Audrey non fu nominata per la migliore attrice.
Ciò che distingue My Fair Lady dagli altri musical sentimentali è che davvero lancia un messaggio. Attacca in modo spensierato e istintivo quel modello sociale britannico che vedeva l’inglese distanziarsi dall’accento volgare e periferico che in qualche modo aveva dettato il suo percorso come lingua.

Un errore da non commettere è guardare questo film in italiano, un eterno dubbio che attanaglia cinefili da generazioni, ma qui l’abisso delle due versioni è ben visibile: un errore madornale che ne appiattisce tutto il senso, considerato che il senso si trova proprio nelle pronunce, negli accenti sgrammaticati e volgari del Cockney, dialetto dei sobborghi inglesi, che nella versione italiana si colora di un’influenza pseudo meridionale: Audrey viene mortificata da uno dei suoi doppiaggi peggiori, che non rende la minima giustizia alla sua interpretazione.

Ne parlammo quella sera fuori dal teatro: vendo fiori, non vendo il mio corpo. Adesso che avete fatto di me una lady non posso vendere altro.” Ciò dimostra come sia avvenuta in toto la sua emancipazione reale e di come lui non disprezzi l’arguzia ritrovata o il mal celato perbenismo tant’è che la sua riuscita, il suo sogno di forgiare un essere incolto non è legato ad una misoginia di fondo ma a un disinteresse e appiattimento verso il mondo femminile, che lo porta limpidamente ad ammettere che è solito trattare le duchesse come se fossero fioraie, e che lei che lo era veramente non poteva auspicare ad un trattamento diverso o migliore. Insomma il guaio di un’attrazione che sorge tra questi sbalzi di umore e da appartenenze sociali antitetiche risiede, alla fine, proprio nelle incomprensioni tra i due sessi.

Rivivete My Fair Lady in Blu Ray con la magia del 4K.

Giudizio Cinematographe

Regia - 3.1
Sceneggiatura - 3.1
Fotografia - 3.7
Recitazione - 3.7
Sonoro - 3.6
Emozione - 3.1

3.4

Voto Finale