By the time it gets dark: recensione del film vincitore del Lucca Film Festival 2017

By the time it gets dark è un film che si scompone in tanti frammenti, partendo da un evento storico che ha sconvolto la Thailandia nel 1976

By the time it gets dark (Dao Khanong) è un film thailandese di Anocha Suwichakornpong, pellicola vincitrice, all’interno della sezione lungometraggi, del Lucca Film Festival 2017.

By the time it gets dark si scompone in tanti frammenti partendo da un evento storico che ha sconvolto la Thailandia nel 1976, quando la polizia e un gruppo militare di estrema destra massacrarono dei giovani studenti all’università di Thammasat. Una regista decide di dirigere un film su una donna che guidò i movimenti studenteschi che protestarono proprio in quegli anni. Queste due donne si trovano a convivere assieme in una casa immersa in un ambiente bucolico estasiante. Mentre la regista pone le sue domande e comincia a conoscere la donna, la storia procede attraverso quello che sembra essere il passato della giovane attivista ai tempi dell’università, con la polizia che minaccia i ragazzi, le riunioni tra studenti, i manifesti appesi come protesta al rettore.

By the time it gets dark

Ma la narrazione cambia, la regista ora è sola e si trova a parlare con la cinepresa verso di sé: il confine tra artificio e realtà diventa sempre più sottile. La storia subisce una disgregazione sempre più evidente quando un attore entra nel circuito della pellicola, un attore che viene ripreso mentre torna a casa, legge un copione, si confronta con altri attori, canta una canzone. Poi una telefonata in una sala di montaggio: l’attore è morto. Alcune scene iniziali, probabilmente assistiamo alla realizzazione del film della regista, vengono ripetute in modo speculare: l’incontro, la casa, i dialoghi. Altro distacco narrativo in cui viene mostrata una donna, una donna che cambia lavori continuamente, che ora vive fuori dal mondo e che ora vive a Bangkok, che non lega con nessuno e che, tra la discoteca e il tempio buddista, finisce per perdersi definitivamente.

Assistendo alla visione di questo film si ha quasi subito la sensazione di essere dinanzi ad un non film, non cinema, non attori, non scrittura, è tutto poco lineare, agli antipodi. Gli attori si intersecano nella storia, una storia che sembra ripetersi, che sembra perdersi, muore con l’inerzia di un paio di braccia conserte. Le immagini simboliste e metafisiche sono apprezzabili ma dispersive, non coinvolgono e non avvolgono sempre lo spettatore, anzi lo spettatore è affranto da una visione liquida che non si lascia raccogliere, che non interagisce, non ha un contenitore. La regista sceglie di narrare una storia nella storia all’interno di un un percorso che nasconde ogni direzione. Gli attori cambiano volto, cambiano desideri, ricordi. Non si è mai allo stesso modo all’interno di questo film, memoria, verità e narrazione prendono vie differenti e si scambiano le parti.

Il tipo di realtà concepita in questa pellicola è sicuramente qualcosa al quale non ci si abitua, poiché la regista porta avanti diverse realtà, quelle di una storia tragica, quella di un paese senza memoria, quella di un popolo affranto e impoverito dal dispotismo, in cui ogni dispersione, ogni cambio e incertezza filmica è solo il riflesso di una più grande incertezza, quella di non saper reagire, di non poter sopravvivere, scegliendo l’oblio al posto del ricordo.

By the time it gets dark

Ma se da un lato si entra in una dispersione volontaria e autarchica, By the time it gets dark rimane una pellicola molto complessa ma non pletorica, densa di allegorie, che sperimenta attraverso un dialogo temporale molto vorticoso, una pellicola che sceglie di eludere, di bloccare la riproduzione tipica di un fatto storico, proponendola allo spettatore in un modo nuovo, ricostruito, esaminato da una doppia cinepresa, una nelle mani della regista e l’altra affidata all’artificio stesso, come se rimodellasse il passato della propria nazione per poi proporlo in modo diverso, non nuovo ma ciclico, in cui le persone cambiano, ma l’esito resta lo stesso. Ed è proprio il senso stesso della storia, la sua ciclicità è inevitabile.

Il cinema è omaggiato nella sua grandezza, nei suoi colori, dagli scorci metaforici agli spazi più infimi, alle intercapedini. La regista non teme di confondere, deforma la narrazione assumendo come logica imperitura una temporalità senza cronologia e, senza mai peccare di realismo, assumendo come regola preponderante lo svelamento dell’artificio, mostrando come il più bel paesaggio della pellicola sia finto, digitale.

Come se i film fossero esattamente come l’uomo, la cui storia è solo una replica infinita, una dissimulazione ciclica in cui nascere, morire, deteriorarsi all’infinito.

By the time it gets dark

By the time it gets dark non ha una trama principale o un personaggio principale

Semplicemente vengono presentate e seguite delle persone a cui fa capo una storia più grande, onnipresente e da cui tutto è dipeso. I personaggi scompaiono lasciando il posto ai luoghi, alla Thailandia, un modo di identificare e puntare lo sguardo sulla regressione e la soppressione di un popolo mostrandone gli scenari, lo smarrimento, anche attraverso la vita sociale e dissociale di un attore, di una regista o di una donna qualsiasi, che cambia diversi lavori e si muove all’interno di uno stato politicamente repressivo, in cui l’impotenza dei propri abitanti si intravede nella passività, nella leggerezza di appigliarsi alle luci di una discoteca, e poi alla fede buddhista, sperando che in qualche modo qualcuno arrivi a salvarci dal vuoto, dall’inconsistenza senza fine.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 4
Recitazione - 3
Sonoro - 2
Emozione - 2

2.8