La dolce vita: recensione del film di Federico Fellini

Vincitore della Palma d’Oro al tredicesimo Festival di Cannes, La dolce vita è uno dei film italiani più visti al mondo. A sessant’anni da quel 1960 che ne decretò il trionfo, conserva intatta la sua malia. 

Opera a episodi, frammenti conchiusi e, dunque, perfetti, di una composizione mosaicata, La dolce vita si nega, a partire dalla sua struttura, ad accogliere un visione teleologica della vita. Non si va mai da nessuna parte e il mondo non è organizzato per finalità. Federico Fellini simpatizzava per la psicologia junghiana, ma la vocazione fondamentale del suo protagonista, Marcello Rubini, fotoreporter scandalistico con l’ambizione di diventare scrittore, non trova sul suo cammino ostacoli e giochi d’ombra per potersi infine compiere, ma soltanto per frantumarsi nel quotidiano, in una mondanità vacua e, al di là delle apparenze, luttuosa e presaga di morte.

Quando, nella scena finale, Paola, la ragazzina umbra che serviva d’estate ai tavoli di Anzio  per guadagnarsi qualche soldo, cerca di comunicare a Marcello di essere riuscita a realizzare il suo sogno di diventare dattilografa, lui per lo sciabordio dell’acqua di mare, non riesce (o non vuole) sentire: non è questione di incomunicabilità, ma di una distanza profonda e incolmabile tra due individualità che si stanno simpatiche ed eppure restano incompatibili perché guidate da due diversi timoni simbolici. Il fantasma è un prodotto di cultura, non tanto di natura. Marcello abdica alla vita scegliendo la sordità, trasposizione simbolica di quel ventaglio di alibi, mascheramenti, scuse sempre aggiornate per non combinare nulla, per disperdere talento ed esistenza nei liquami di riti e legami esteriori, esibiti e inconsistenti.

Marcello e le sue donne: amate di un amore mai compiuto sullo sfondo di una Roma tanto sfavillante quanto arida

Marcello Rubini è interpretato da Marcello Mastroianni; l’attrice americana Sylvia da Anita Ekberg

Il protagonista, invaghito di donne che si lascia sempre sfuggire, la gigantessa Sylvia – giunonica perché figlia di Giunone, posta sull’altare del mito – o Marcella, ricchissima ma annoiata dai suoi stessi privilegi, oppresso da una fidanzata avvilita, Emma, d’indole cupa e controllante, che lo trattiene in una relazione di stampo edipico, si culla in un’indolenza sognante e quasi fanciullesca, tra amarezze che non vuole assecondare e frustrazioni cui non è in grado di reagire.

Campione di inazione, il personaggio interpretato con maestria impareggiabile da Mastroianni, è un anti-eroe più malinconico che mascalzonesco, è un ‘vitellone’ che ci ho provato ad uscire dalla provincia del suo animo, ma senza vera convinzione perché, come il protagonista di un romanzo di Moravia, è, in fondo, indifferente a se stesso, bloccato da un vuoto profondo che non vuole ascoltare, nello stesso modo in cui non vuole ascoltare le parole di gioia della piccola Paola, la ragazzina che lui non è più, un’allegoria di purezza virginale, e, del resto, è proprio Marcello ad averle detto, ai tempi del primo incontro, che gli ricordava una madonna. Paola è lì a incarnare la semplicità dei desideri che lui non riesce più ritrovare nella loro urgenza, neanche nei recessi di una memoria che si è inceppata per eccesso di auto-inganni.

La dolce vita: tra la purezza dei piccoli e la viltà dei grandi

La giovane Paola (Valeria Cingottini) nell’ultima scena della Dolce vita

C’è molto anche di Pasolini, tra gli sceneggiatori pur non accreditato, in questo film immenso non solo per la plasticità delle sue immagini in bianco e nero, ma anche per l’intelligenza precorritrice: la dolce vita felliniana è entrata nei modi di dire nostrani e stranieri come espressione volta a indicare un’esistenza spensierata e dedita ai piaceri ed è singolare perché la dolce vita felliniana, a rigore, è esattamente il contrario di ciò che è finita per significare. È una necropoli, un edificio di cadaveri abbigliati in modo sfavillante, vittime sacrificali di una società che ha svenduto i suoi valori in nome di un imperativo a godere, imperativo che ha fatto sì che l’umanità perdesse, anziché conquistare, la via del piacere.

I due bambini soppressi dal padre, quello Steiner che Marcello ammirava perché insieme intellettuale realizzato e felice uomo di famiglia, metaforizzano l’immolazione delle pulsioni non sublimate, delle intuizioni non mentalizzate, dei lampi sinceri – come quelli che emanano gli occhi del maschietto –, dell’autentico divertimento nel combinare le parole, passione della femminuccia troncata dalla follia omicida e suicida del padre, cortocircuito psichico e morale che altro non è se non resa nichilista al deserto di senso e al fallimento della compassione.

Se, dunque, il termometro del genio è la capacità preveggente, il genio felliniano non può essere messo in discussione. Il suo surreale, vibrante in questa Roma più festereccia che festosa, allo stesso tempo fascista e gaudente, in una dittatura del piacere che finisce per mortificare e traslare nell’inafferrabile metafisico ogni emozione autentica, è di fatto un reale accresciuto, ritratto così com’è sebbene nella trasfigurazione della sua verità impossibile da cogliere sia con i soli sensi sia con le facoltà razionali, e per questo affidata ai simboli.

Federico Fellini in 10 film. Visioni obbligatorie per capire un genio del cinema!

giudizio cinematographe

Regia - 5
Sceneggiatura - 5
Fotografia - 5
Recitazione - 5
Sonoro - 5
Emozione - 5

5

voto finale