A Beautiful Mind: recensione

Princeton, 1948. John Nash, timido e impacciato, fa il suo ingresso all’Università, assieme ad altri matematici, borsisti, per allargare il suo sapere. Diverso dagli altri, isolato, non frequenterà nessuna lezione, convinto che occludano la mente, che ostacolino la sua ricerca di un’idea geniale, originale, che possa finalmente affermarlo.

Quell’idea faticherà ad arrivare, diventerà un’ossessione, finché, con l’entrata di una bella ragazza in un bar, tutto cambia: 150 anni di storia dell’economia vengono riscritti, e il nome di John Nash inizia ad affermarsi.

Con una sua cattedra, con un suo posto di lavoro, riuscirà perfino a conquistare la studentessa più bella e intraprendente del suo corso, a sposarla, a farci un figlio, mentre la sua carriera prosegue su due binari, quello ufficiale, e quello misterioso e segreto, alla ricerca di codici e messaggi criptati che i russi hanno nascosto tra le pagine dei periodici, con fughe di mezzanotte, uomini che lo inseguono o lo pedinano, scadenze da rispettare. O forse no, perché c’è qualcosa che non va nella mente di John, c’è una paranoia che si fa sempre più evidente, che mette in pericolo tutti coloro che lo circondano.

A Beautiful Mind

A Beautiful Mind – viaggio all’interno della mente malata di un genio

A Beautiful Mind non è altro che un bellissimo viaggio all’interno di questa mente speciale, che ci incanta, ci inganna, ci sa stupire.

Ron Howard, vincitore dell’Oscar alla regia nel 2001 proprio grazie a questo film, dosa tutto in un perfetto equilibrio, aiutato dalle musiche toccanti che sottolineano le emozioni del protagonista, i momenti migliori, alternando pubblico e privato, infondendo ancora più magia negli istanti romantici, in quell’amore tra John e Alicia che nasce e cresce. Romanzando il giusto una vita fatta di difficoltà, in cui non erano tanto le allucinazioni a minare la stabilità mentale del matematico, ma i deliri di onnipotenza, lo sceneggiatore Akiva Goldsman (nomination Migliore sceneggiatura non originale) ci consegna una storia vera e sicuramente difficile da dimenticare.

A rendere indimenticabile la figura di John Nash, un Russell Crowe quasi irriconoscibile, che smessi i panni del muscoloso gladiatore Massimo, regala forse la miglior prova della sua carriera, fondendosi con il matematico, esaltandone il genio, i tic, mostrandoci la realtà di una malattia che non può essere sconfitta, ma solo conoscere per imparare a conviverci. Magistrale anche l’interpretazione del matematico in là con l’età, un invecchiato Russell Crowe che forse ormai ha capito quale sia la logica che davvero muove il mondo e ci commuove con la propria sincerità.

A Beautiful Mind

A fargli da spalla, una bellissima Jennifer Connelly, seducente, intelligente quasi come il marito, sicuramente più paziente, più tenace, giustamente premiata con l’Oscar. La sua Alicia è infatti il punto fermo nella vita di Nash, la sola capace di stargli accanto, di dargli fiducia o di costringerlo a curarsi, a guardare in faccia la verità della sua malattia mentale. Sacrifica la sua vita, la dedica a lui, a quei momenti di tranquillità che in mezzo al caos, in mezzo alla paura ancora ci sono. Nella realtà, Alicia si allontanò dal marito durante il secondo ricovero nel 1962, divorziò da lui, per poi tornare al suo fianco nel 1970, risposandolo nel 2001 e non abbandonandolo più fino alla fine, trovando assieme a lui, al suo fianco, la morte, avvenuta lo scorso maggio in un incidente stradale.

Completano il cast un’esuberante Paul Bettany e un misterioso Ed Harris.

Prima dell’ondata di biopic di questi anni, prima che la scienza diventasse così cool, con film dedicati ad Alan Turing (The Imitation Game) e a Stephen Hawking (La Teoria del Tutto), c’è stato John Nash, in un racconto che non solo è riuscito a raccontarne le capacità, a farci comprendere –seppur limitatamente- le sue teorie e le sue idee, ma c’ha raccontato una vita unica, riuscendo a mantenere un equilibrio che gli altri film non hanno: troppo sacrificata la parte privata di Turing (anche se questo gli permette di non cadere in un facile buonismo), troppo sacrificata quella pubblica di Hawking (in cui non c’è quasi traccia delle sue teorie e delle sue scoperte, a favore invece della malattia).

Ed è speciale come questi tre geni, come questi tre matematici, siano riusciti ad imporsi, nel loro campo come anche in quello cinematografico, nonostante malattie mentali e fisiche ad ostacolarli. Handicap che li rendono più forti, più degni di essere conosciuti e apprezzati, simboli che non è una sindrome, non è una schizofrenia, non è l’incapacità di muoversi, a mettere dei limiti.

Giudizio Cinematographe

Regia - 5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4.6
Sonoro - 4
Emozione - 3.7

4.2

Voto Finale