Aki Kaurismäki: il surrealismo finlandese attraverso i film del regista

Aki Kaurismäki leva via la pelle della realtà che racconta e la mostra cruda, malinconica, struggente come solo certi paesaggi nordici, freddi e poetici, sanno essere, mondi che sembrano essere vicini al vivere quotidiano e invece sono, anche se di pochissimo, al di là del confine. Il suo è un cinema lento ma inesorabile, non ha fretta di mostrarsi, non violenta, non meraviglia almeno all’inizio, dà il tempo di innamorarsi dei suoi personaggi – dai coniugi che perdono il lavoro e si arrabattano (Nuvole in viaggio) all’uomo che si prende cura di un bambino immigrato, nonostante sua moglie sia ammalata (Miracolo a Le Havre), dall’uomo senza più ricordi (L’uomo senza passato) a quello che dà lavoro a un migrante (L’altro volto della speranza) -, delle sue storie scombinate e drammatiche, surreali e grottesche, d’amore e di tradimenti, di fuga e di rifugio, di ristoranti e di case, di fumo e di alcool, di solidarietà e di solitudine. Quelle bizzarre e dolorose visioni che vanno da Delitto e Castigo a L’altro volto della speranza, lasciano pensare, a poco a poco, di scena in scena, di boccata in boccata, di sorso in sorso, all’asprezza della vita con delicatezza, ironia e innocenza, e alla fine si rimane sorpresi e ammaliati da una società che non dà sollievo ai suoi figli, che non li aiuta ma li allontana sempre più da sé.

Aki Kaurismäki: il cineasta che usa il surreale per narrare piccole e grandi tragedie

Kaurismäki racconta con un umorismo impercettibile le tragedie e l’orrore del mondo, e proprio grazie al suo stile surreale e grottesco è in grado di arrivare al cuore della questione senza indulgere a facili pietismi, a urlate denunce, a una scontata indignazione. Parla di povertà (i piatti vuoti di Nuvole in viaggio, la comunità di disgraziati di L’uomo senza passato), di immigrazione (gli occhi pieni di paura e speranza dell’Idrissa di Miracolo a Le Havre, il nascondersi dello straniero senza documenti negli armadi e la solidarietà di chi accoglie di L’altro volto della speranza), di repressione (quella sociale ma anche quella familiare di La fiammiferaia) e malattia, senza paura, guarda con uno sguardo neutro ai suoi esclusi, ma non li priva della sua partecipazione e solidarietà. Il cinema del regista si immerge e immerge lo spettatore in un’Europa ferita e lacerata, in una Finlandia fredda, gelida, ma piena di calore umano in cui per qualcuno che umilia, picchia, insegue, incrimina c’è un altro pronto a soccorrere, sollevare, nascondere, aiutare.

L’uomo di Kaurismäki è povero, profugo, reietto, sfruttato, senza lavoro e senza passato eppure riesce a farci sorridere con taciturna delicatezza, con ironia dolente e kafkiana, con dialoghi talmente surreali da risultare profondamente reali e commoventi. Si fugge dalla propria terra d’origine, si perde la memoria, si è migranti alla ricerca di una nuova vita, migliore di quella che si è vissuta fino a quel momento, ma non si sprofonda mai nella disperazione più nera e lacrimevole grazie a quella scrittura essenziale, asciutta, accarezzata da quella drammatica vena surreale e ironica, unica salvezza in un mondo che picchia, irride, scaccia e insegue l’uomo, umano, troppo umano. Così nel surrealismo di Kaurismäki e nel suo cinema freddo e accogliente allo stesso tempo, felice proprio nella povertà più squallida fatta di scarpe scalcinate, di pasti divisi fino all’ultima lacrima, ci si ritrova sempre nella stessa storia, lieve e afflitta che è in grado di conquistare ogni volta, in una sorta di presepe laico che ricorda il teatro dell’assurdo in cui non succede nulla, non ci si dice nulla eppure succede tutto.

Aki Kaurismäki: narratore di un mondo capovolto

Nel suo cinema, dalla trilogia degli operai (Ombre del paradiso, Ariel, La fiammiferaia) a quella dei perdenti/della solitudine (Nuvole in viaggio, L’uomo senza passato, Le vie della sera), passando per il meraviglioso dittico Miracolo a Le Havre e L’altro volto della speranza, il mondo è alla rovescia; in Vita da bohème i tre protagonisti vivono con il poco danaro frutto della loro arte, non inseguono successo, ricchezza e fama, ma condividono, paghi della loro arte, tutto ciò che hanno affrontando così la vita con struggente dignità in un misto di coraggio, ironia e amicizia. Queste pellicole hanno lo stesso respiro del cinema muto e del bianco e nero (vari sono i film non a colori), quello stesso tessuto empatico, che avvolge e stringe i protagonisti che nella polvere, nei momenti di disavventura si uniscono all’altro in un affresco in cui il soggetto è l’Umanità.

Dagli anni ’80 ad oggi, nel percorso di Kaurismäki fatto di emarginati, disoccupati, clandestini, lo spettatore assiste alla battaglia con esiti alterni del singolo contro la società, ma viene sollevato da una parola, da un gesto, da un riverbero di luce, come l’uomo in ginocchio. Un uomo che ha fatto i conti con l’età dell’oro ma anche con la crisi, economica e umana, fatta di portafogli vuoti ma anche dell’immigrazione di massa – presente anche nel surrealismo letterario finlandese – raccontata dal cineasta con toccante e profonda poesia e con quell’ironia e quel disincanto, diventati sua cifra stilistica.

Il regista narra la solidarietà e la paura negli occhi degli accolti e degli accoglienti, prima con Idrissa, un piccolo migrante, e Marcel Marx (Miracolo a Le Havre) poi con Khaled, un giovane siriano fuggito dal proprio paese, e Waldemar Wikström (L’altro volto della speranza) che gli offre un lavoro nel suo ristorante. Gli ultimi si incontrano con altri ultimi, disperati aiutano altri disperati, rappresentanti di un cinema e di un regista che non sono né ciechi né sordi ma cinicamente e sentimentalmente sensibili a tutto ciò che accade. Tra un asciutto eccesso – per ciò che accade ai protagonisti – e un’enfatica sobrietà – che si declina nella bontà e nella dignità, pilastri dei suoi film – il Chaplin finlandese segue l’odissea di questi sospesi e silenziosi perdenti perduti, apostoli della religione della solidarietà, della comunanza, stralunati tedofori di un’umanità che ha in sé, come dice il suo ultimo lavoro, la speranza.