Monica Vitti: i film da vedere per conoscere la donna dietro l’attrice

Dal sodalizio con Antonioni a quello con Alberto Sordi: la vita e la carriera di Monica Vitti attraverso i suoi film più belli.

“Faccio l’attrice per non morire, e quando a 14 anni avevo quasi quasi deciso di smettere di vivere, ho capito che potevo farcela a continuare, solo fingendo di essere un’altra, facendo ridere il più possibile”, risuonano con vigore le parole di Monica Vitti, l’icona del cinema italiano e non solo, capace di narrare le ombre, le lacrime, il vuoto e di mostrare il sorriso più violento e implosivo. Parole che acquistano nel giorno della sua morte, il 2 febbraio 2022 (nata a Roma il 3 novembre del 1931), una forza speciale, quasi miracolosa: la recitazione per vivere, per sopravvivere alla morte, l’arte per “fingersi” altro e riuscire a continuare a vivere. Monica Vitti era ed è tutto questo, è complessità e levità, dramma e ironia feroce e tenera, silenzio profondissimo e sensualità intelligente, dramma dietro al riso e riso che scioglie il dramma. Si sente tutto questo bagaglio nelle parole di coloro che hanno amato, idolatrato, sentito, lavorato con Monica, la Vitti, ricordata in uno dei giorni più difficili per il cinema italiano, quello in cui il sipario della vita si è davvero chiuso per questa donna così moderna e anticonformista, così roca come la sua voce e conturbante come la sua anima, emancipata e fuori dagli schemi.

Monica Vitti: una stella eclettica che ha voluto rompere i tabù

Voce, fascino romano e simpatia, Monica Vitti in quarant’anni di carriera ha prestato il suo talento ai più grandi registi italiani e non: dalla “tetralogia dell’incomunicabilità” di Michelangelo Antonioni alle commedie all’italiana al fianco di Alberto Sordi, Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni. La sua è stata una carriera straordinaria, piena di riconoscimenti: 5 David di Donatello come migliore attrice protagonista (più altri quattro riconoscimenti speciali), 3 Nastri d’Argento, 12 Globi d’oro (di cui due alla carriera) e un Ciak d’oro alla carriera, un Leone d’oro alla carriera a Venezia, un Orso d’argento alla Berlinale, una Cocha de Plata a San Sebastián, una candidatura al premio BAFTA. Diplomata all’Accademia nazionale d’arte drammatica, diretta dal suo maestro Silvio D’Amico, ha debuttato giovanissima a teatro e deciso di cambiare il nome, all’anagrafe Maria Luisa Ceciarelli, in Monica Vitti, dal cognome della madre Vittiglia mentre Monica era un nome che aveva letto in un libro e le era piaciuto talmente tanto da sceglierlo. Inizia così la storia di Monica Vitti, dell’attrice teatrale, drammatica e comica, una cannonata contro l’ovvio, una mente libera e indipendente, un’attrice che ha preteso di non incarnare cliché ma donne, ruoli a tutto tondo, senza paura di inseguire questa strada, anche se la famiglia non l’appoggiava (“I miei genitori non hanno mai condiviso la mia scelta. Un giorno mia madre mi disse: La polvere del palcoscenico corrode l’anima e il corpo”),

Donna di estremo fascino e intelligenza è stata capace di costruire un’immagine divistica nuova, capace di incarnare la nuova femmina, che aveva completamente sradicato gli elementi tipici, triti e ritriti, dalla sua personalità rompendo le costruzioni culturali che le attrici, e si legga anche le donne in genere, dovevano seguire. Monica non ricorda per nulla Loren, neppure Lollobrigida, parla un linguaggio differente, lontano da quello della moracciona italiana, dalle forme generose e dai colori mediterranei, ha una fisicità strana, quasi spersonalizzata, può divenatare metafora della società del boom economico e di tutti i cambiamenti sociopolitici di quegli anni. Lo schermo racconta la pelle chiara cosparsa di fulgide lentiggini, i capelli che dolgono di Deserto Rosso, immagine che assurge a simbolo del mal di vivere, il corpo asciutto e flessuoso in grado di far perdere la testa, i suoi occhi espressivi anche quando vuoti per il tormento, la bocca carnosa pronta a tacere ma anche a sciogliersi in un sorriso meraviglioso.

La Vitti e il suo talento estremo stanno proprio nella forbice tra due battute, “Mi fanno male i capelli” e “Ma ‘ndo Hawaii se la banana non ce l’hai”, che mostrano le sue plurime anime, declinate tutte nel migliore dei modi; è stata forse l’unica, o una delle poche della sua generazione, a coprire tutta la gamma di espressioni del cinema italiano: la donna borghese, nevrotica, dolente dell’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni e la popolana, sguaiata, di un’allegria contagiosa con Alberto Sordi ma in mezzo ci sono tante altre donne altrettanto speciali, altrettanto sfaccettate, altrettanto interessanti.

Monica Vitti: la bella nuca e la tetralogia con Antonioni

Monica Vitti è stata tutto: profonda, enigmatica, sensuale, spiritosa, intellettuale, popolare, malinconica, capace di usare il corpo sullo schermo non per sedurre ma per divertire, addirittura ridere, cosa complessa, difficile per una donna, ancora di più se bella – nonostante lei così non si sentisse tale. Sembra quasi uno scherzo beffardo se si pensa al fatto che la Vitti non aveva nessuna intenzione di fare cinema davvero, il suo grande amore era il teatro – breve ma intensa l’attività teatrale, da Shakespeare a Molière, da Brecht a Sei storie da ridere di Luciano Mondolfo – scoperto durante la guerra quando giocava con i fratelli mettendo in scena spettacoli con i burattini per distrarli dalla realtà che li circondava. Fa un po’ di teatro, arriva al doppiaggio ed è proprio lì mentre Monica sta prestando la sua voce ad uno dei suoi personaggi che Antonioni dice quella frase destinata a cambiare la sua carriera e la sua vita: “Ha una bella nuca, potrebbe fare del cinema”.

Quel bell’incontro scuote la sua esistenza, fa saltare tutti i suoi progetti, stava per sposarsi con un fidanzato architetto. Vitti diventa la musa di Antonioni, e sua compagna, insieme narrano le nevrosi della coppia, le inquietudini della donna moderna. Monica parla con i silenzi, esprime turbamenti, dolori, drammi, traumi, attraverso le parole dosate di sceneggiature meravigliose. L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Deserto rosso (1964) sono quattro film che le danno la possibilità di raccontare quattro donne diverse ma simili, quattro variazioni sullo stesso tema: la tormentata Claudia che cerca l’amica tra le isole delle Eolie, la tentatrice Valentina che “ruba” Mastroianni a Jeanne Moreau, la misteriosa e scontenta Vittoria che si fa corteggiare senza entusiasmo dall’agente di cambio Alain Delon e la depressa e tormentata Giuliana, moglie insoddisfatta di un imprenditore.

Monica fa sue le inquietudini dei personaggi di Antonioni che camminano senza meta e senza la forza necessaria per reagire agli stimoli che li colpiscono dall’esterno. Antonioni è interessato al rapporto uomo, donna, paesaggio, alla distanza tra cose e persone. Intervistata nel ’69 la Vitti dice:  “Io davo il mio contributo, ma c’era poco da contribuire per il regista-autore l’attore è come un paesaggio o un suono” e lei sapeva essere paesaggio e suono. Un paesaggio tanto rarefatto quanto impenetrabile, come dimostrano le numerose inquadrature della nuca o dei capelli che fanno male, arruffati, scarmigliati, elementi fondamentali per un dramma spesso di spalle che rappresenta uno dei tratti distintivi di questo cinema.

Il viso di Vitti è uno spazio non leggibile ma che si può guardare, a cui si può assistere, su cui riverberano non le forze dell’azione, ma le rifrazioni dell’attesa. La protagonista di L’avventura attende, prima il ritorno di Anna e poi conferme da Sandro. E, mentre attende, si guarda intorno; le eroine dell’incomunicabilità alternano apatia e inquietudine con improvvisi attimi di serenità.

Dopo questi film tutti la amono, i grandi registi la vogliono, per il suo talento, per il suo mistero, per quella voce roca e pastosa diversa da tutte le altre che l’ha contraddistinta. Questo cinema però le sta stretto, o meglio, vuole indagare anche altre parti di sé e del mondo femminile, non vuole venire etichettata, inscatolata, ha bisogno di abitare altri corpi, altre vite.

Monica Vitti: tra rivoluzione e commedia, la ragazza con la pistola

“Le donne mi hanno sempre sorpresa: sono forti, hanno ancora la speranza nel cuore e nell’avvenire”

Nella seconda metà degli anni ’60, concluso il viaggio nel cinema di Antonioni e con lo stesso regista da cui si è separata, Monica Vitti decide di interpretare ruoli comici. Lavora con Monicelli, Sordi, Scola, Risi, Salce, Loy, Comencini; è istrionica, vuole rompere le catene imposte solo e soltanto alle donne, vuole essere comprimaria non figura di contorno, ottiene il centro e lì splende della sua bravura. Con Mario Monicelli (La ragazza con la pistola, 1968) libera la sua vis comica, dà corpo alla coraggiosa e ribelle Assunta Patanè che è stata rapita per errore – perché lui voleva in realtà la cugina di lei – da Vincenso Macaluso (Carlo Giuffré) che di fronte allo sbaglio non retrocede perché l’uomo deve fare l’uomo. Dopo aver consumato il “peccato” la mattina dopo Vincenzo scappa ma Assunta vuole vendicarsi, la morale corrente lo richiede.

“Questa è la pistola, questo è il passaporto per l’Inghilterra, questo è l’indirizzo del traditore, questa è la foto..”

Così dice la mamma di Assunta e questo lei deve fare; lei è stata “disonorata” e se lei non fa nulla nessuna vorrà né lei né le sue sorelle.

In quello che è un romanzo di emancipazione femminile Vitti incarna una donna che viene lapidata da una società – una Sicilia piena di pregiudizi, arretratezze, ammorbata da un maschilismo tossico – che disconosce, lapida colei che viene meno al codice d’onore. Assunta è forte, temperamentosa, nonostante lungo il film dica il contrario (“sono debole, sono una donna”) e deve farsi strada in un mondo fatto di uomini gretti, omuncoli che non hanno stima e rispetto per lei. In Inghilterra arriva infarcita e grondante della sua sicilianità, fasciata in un abito nero e i capelli intrecciati in una scura treccia, dei suoi pensieri (“il vero uomo ci deve provare, la vera donna si deve rifiutare”) e poi, a poco a poco, proprio lì, arriva a scoprire la vera sé stessa, e cambia abiti, pensieri, modi di vivere. Vitti si diverte e diverte con un personaggio che sembra essere divertente ma è anche profondamente moderno, reale, rivoluzionario. Il successo è enorme, immediato, contagioso. In pieno ’68, l’emancipazione della siciliana Assunta Patanè che insegue fino in Inghilterra Vincenzo per poi capire che si può essere libere e onorate anche senza passare per il delitto d’onore, fa rumore. Monica Vitti domina nel cinema italiano degli anni ’70.

Monica Vitti: il sodalizio con Alberto Sordi

Importanti sono stati sicuramente i ruoli accanto ad Alberto Sordi in cui l’attrice racconta l’Italia, il mondo e i mondi piccoli o grandi che siano. Con Amore mio aiutami ad esempio Sordi mostra un tragicomico minuetto sul tema della coppia che dietro ad una facciata di disinvolto modernismo s’aggroviglia nel gioco delle parti. Da una parte c’è Raffaella, dall’altra Giovanni, da una parte lei chiede appunto di aiutarla perché si è innamorata di un altro uomo, Valerio, dall’altra lui fa l’uomo che accetta, capisce, dà tempo. Sordi e Vitti guerreggiano meravigliosamente in una divertente schermaglia amorosa: lui vuole essere progressista, moderno, apprezza la sincerità della moglie, lei ammette di essere fortunata ad avere quel marito, ma le verità sono altre. Lui è geloso da impazzire e lei non vuole guarire da quella malattia d’amore, anela a quell’uomo che non è il marito e lo vuole senza il logorante senso di colpa per Giovanni. In uno dei momenti più godibili del film Raffaella cerca di stare lontano da Valerio ma addirittura il suo fisico le dimostra che è un errore, non riesce a muoversi, gli arti vanno per i fatti loro. Sordi sceglie un’attrice diversa, lei non ha un fascino androgino neppure acerbo come molte delle attrici moderne (all’epoca), Vitti usa il suo corpo quasi al contrario, gioca con ogni particella di sé, affetta dalla paralisi nervosa, si mostra in preda alla zoppia, a  mancamenti per nulla erotici, mette in scena un lavoro meraviglioso che poche altre avrebbero potuto fare.

Vitti non teme nulla, si mette in gioco, mostra la ribellione delle donne, la voglia di uscire dalle prigioni imposte nonostante tutto intorno imponga il contrario. Finge di voler dare una possibilità al proprio matrimonio ma in realtà lei vuole solo scappare, solo dopo la scena delle botte date dal modernissimo marito sulla spiaggia – in cui la famiglia di granito erutta violentemente senza possibilità di frenarsi -, lei arriva a trovare il coraggio e a dire, a bassa voce, bisbigliando: “l’importante è che tutto si svolga senza drammi, da persone civili”.

Interessante è anche la sua interpretazione in Polvere di stelle (1963) in cui è Dea Dani che è un’attrice di varietà e insieme al compagno Mimmo Adami (Sordi) lavora nel ’44 da Roma si sposteranno prima per piccole date in Abruzzo, facendo la fame. Lui capocomico, lei la sua spalla-soubrette dopo varie peripezie con i nazifascisti per cui avrebbero dovuto lavorare, troveranno la fortuna a Bari. Lì, gli alleati americani li faranno debuttare al Teatro Petruzzelli con lo spettacolo Polvere di stelle. Mimmo e Dea si fanno prendere la mano dal successo e sognano addirittura Hollywood. Purtroppo però, quando finisce la “festa”, finisce anche la loro fortuna e dovranno ritornare a Roma con la coda fra le gambe e vivere di ricordi. Il film celebrazione dell’alchimia incredibile tra i due attori che in punta di fioretto giocano, cantano, ballano, consegna alcune scene meravigliose una fra tutte quella in cui i due cantano Ma ‘ndo Hawaii.

Monica Vitti: il dramma della gelosia, una donna che ama due uomini

Ettore Scola_Cinematographe.it

Negli anni Settanta l’attrice fu diretta per tre volte dal compagno di allora, il direttore della fotografia di Antonioni, Carlo Di Palma, passato alla regia: È lei Teresa la ladra, il film di debutto di Di Palma (1973), poi è la volta di Qui comincia l’avventura (1975), dove è motociclista tuta in pelle e casco integrale nel film a due con Claudia Cardinale (sorta di Thelma e Louise ante litteram) e infine è regina di tabarin in Mimì Bluette…fiore del mio giardino,1976. “Entra” in tv nel ’74 e fa coppia con due stelle del piccolo schermo Raffaella Carrà e Mina cantando con loro Bellezze al bagno nel varietà Milleluci, quattro anni dopo recita per la televisione nella commedia Il cilindro, di Eduardo De Filippo.

Continua a perlustrare l’ironia, la risata e il grottesco, con Ettore Scola, gioca con i problemi di coppia e le relazioni personali in Dramma della gelosia in cui accanto a Giannini e Mastroianni scrive una delle più divertenti pagine della commedia. Scola fa una sensibile e profonda rappresentazione della trasformazione e delle nuove aperture degli italiani, mostrando le difficoltà e le impossibilità di una relazione a tre. Le vicende partono da Adelaide (Monica Vitti), una bella fioraia infarcita di ideali romantici ed aspettative amorose, la quale alla Festa dell’Unità, incontra Oreste (Marcello Mastroianni) affascinante muratore romano, sposato con una donna più grande di lui, alla quale non lo lega più nulla. Quello che era il siciliano “amore a vista” qui diventa un colpo di fulmine degno dei più romantici romanzi rosa, i due, tra un’ideale comunista e un pensiero rivoluzionario (solo di lui), si innamorano improvvisamente sotto una giostra, avvolti da un’atmosfera fiabesca. La passione li colpisce ma poi all’improvviso entra in scena Nello (Giancarlo Giannini), pizzaiolo toscano amico d’Oreste, conosciuto ad una manifestazione del PCI. Anche qui Vitti mette in scena una donna nuova, economicamente indipendente, che quindi può almeno sulla carta compiere le scelte che vuole, non ha legami o meglio legacci che le impongono rapporti e determinati vincoli. Adelaide è vitale, passionale e piena di vita, è innamorata di Oreste ma perde la testa anche per il pizzaiolo, non pensa al matrimonio, ai figli o a quel matrimonio di granito che fino a poco tempo prima era l’unica, inesorabile possibilità per una donna, non vuole un normale nucleo familiare, ha bisogno di vivere queste due relazioni contemporaneamente. Questo è un racconto molto moderno in cui la altrettanto moderna Vitti sa rappresentare bene luci e ombre di una scelta come questa, piccoli drammi e infinite ironie, tormenti e fragilità di una che è fin troppo avanti per i tempi in cui vive.
Lei vorrebbe superare i tabù, affrancarsi dalla vecchia idea d’amore: “Il mio tormento? Devo uscire da questo bivio amoroso, da queste turbe psichiche. Di che natura è il mio male? Ho avuto un trauma? Sono sotto shock? È un disturbo neurovegetativo? O è perché sono mignotta?”; in queste parole ci sono elementi chiave: il timore di essere sbagliata, lo stringente legame tra sessualità e moralità che pungola chi vuole vivere senza troppi giudizi.
Dramma della gelosia non è solo un’opera che racconta l’impossibilità di una storia a tre, ma anche quella dell’amore stesso: le aspettative vengono deluse.

I personaggi comici attraverso cui riesce a raccontare l’Italia e l’essere donne

Interrpreta poi altre donne, altrettanto moderne, quella di Dino Risi (Noi donne siamo fatte così), Luciano Salce (L’anatra all’arancia), Luigi Comencini (due degli episodi di Basta che non si sappia in giro) e in tutti i casi dà il meglio di sé parlando di donne in maniera nuova, profonda anche quando si tende a fare un quadro ironico se non comico, dissacrando quei ruoli sociali che andavano e per certi versi ancora vanno stretti.

Dagli anni Ottanta Vitti comincia a essere meno presente sul grande schermo, figurando soprattutto nei film diretti dal compagno, Roberto Russo (Flirt, 1983; Francesca è mia, 1986) che dopo 27 anni di fidanzamento sposa nel 2000 in Campidoglio.

Monica Vitti e i suoi film più belli: la mattatrice del cinema italiano libera, indipendente e amante dell’arte

Vitti è una donna, un’artista mai paga dell’arte, che come acqua sorgiva è irrefrenabile, racconta dell’amore insaziabile per il cinema, di quanto fin dalla prima scena girata lei si sia sentita accolta, protetta da quella macchina, cosa che a molti colleghi di teatro non accadeva. Per lei quell’occhio è sempre stato fonte di curiosità e libertà, curiosità perché capace di aprire varchi, libertà perché solo così, solo recitando si sentiva davvero libera. La sete di vita e di sfide l’ha resa una navigante in mare aperto, alla ricerca di nuove terre da scoprire, conquista le platee televisive (Milleluci nel ’74 e Domenica in vent’anni dopo), è sempre amica delle donne, con loro lavora fianco a fianco senza mai sgomitare ma anzi è capace di condividere l’occhio di bue. Scrive due libri autobiografici, firma la sua unica regia (Scandalo segreto) nel 1990, porta in teatro la grande commedia americana, al cinema dà prova di intelligenza nella scelta dei ruoli, di desiderio di vestirsi sempre di nuovi abiti, in grado di mostrare la sua faccia lunare, ma anche la sensualità roca di una voce in grado di ridere di gusto, lo smarrimento ma anche il “ricentramento”. Ha saputo incarnare quel che scrive in Il letto è una rosa, il senso di perdita che a volte rapisce “lo smarrimento mi stringe alla gola come un boa trasparente. Non posso dimostrare che ci sia, ma lui mi avvolge e mi striscia sul viso, promettendo orrori…” – ma anche quella pienezza vorticosa che non le permette di stare mai ferma e che la rende un vulcano di energia, forza creatrice e ammaliatrice.

Monica Vitti: l’eredità lasciata dalla diva che non lo voleva essere

Entrata nel 91 anno se ne va una delle attrice più intense e intelligenti del nostro cinema, che fin dal suo fisico racconta una storia differente dalle altre, diversa anche dalle altre diverse, che ormai da vent’anni ha lasciato le scene per una malattia degenerativa che non è mai stata resa nota dalla famiglia per quell’elegante riservaterzza che ha da sempre contraddistinto Vitti. Ad accompagnarla in questi anni la profonda dedizione del marito Roberto Russo che l’ha protetta dalle domande, dalla curiosità morbosa e anche forse dall’amore di chi voleva sapere di lei. Se ne va una donna che ha aperto la strada a molte altre, a quella che quasi nascostamente è diventata icona, simbolo, modello per il suo immenso talento e per il suo desiderio di scoprire e anche di essere sempre profondamente sé stessa.

Dopo la scomparsa di Monica Vitti ci si sentirà un po’ più sole, per tutte quelle donne in lotta, libere, indipendenti o desiderose di esserlo che ha narrato, per quelle femmine che ha raccontato con grazia, eleganza e coraggio. Si devono un po’ salutare anche le donne tormentate di Antonioni, le ragazze con la pistola, le Adelaide divise tra due amori, le Tosca alla Gigi Magni, le soubrette come Dea Dani nella Roma occupata dai nazisti. Ciò che rasserena e placa è che quando sentiremo la mancanza della sua risata, del suo volto intenso ci sarà sempre uno schermo in cui andarla a cercare.