Illuminare Zootropolis 2: l’arte della luce secondo Simone Iannuzzi
Il lighting artist italiano racconta il lavoro dietro le complesse scene del sequel Disney: emozioni, tecnica e una città costruita fotogramma per fotogramma
Nel dietro le quinte di Zootropolis 2 c’è un lavoro minuzioso che rende credibile e pulsante l’immenso mondo abitato dagli animali. Tra i professionisti che hanno dato forma visiva al sequel Disney, c’è anche Simone Iannuzzi, lighting artist specializzato nell’illuminazione digitale. Il suo contributo è stato essenziale nel definire l’atmosfera delle nuove ambientazioni e nel modellare le emozioni dei personaggi attraverso la luce, elemento narrativo centrale in un film che punta a un livello di complessità visiva e tematica ancora più alto rispetto al primo capitolo. In questa intervista, Iannuzzi racconta come si costruisce una città illuminata fotogramma dopo fotogramma, quali sfide creative ha posto il film e come il lavoro di squadra sia stato decisivo per portare sullo schermo un mondo credibile, espressivo e vitale.

In questo secondo capitolo Zootropolis raggiunge una complessità maggiore, sia nella scrittura che nelle tematiche affrontate. Anche la luce svolge un ruolo fondamentale per restituire verità al mondo abitato dagli animali. Com’è stato per lei Iannuzzi affrontare questa sfida ulteriore?
“Sì, allora, bisogna innanzitutto separare quelle che sono le ambientazioni dai personaggi. In una città enorme come Zootropolis ogni luce vive di dettagli, perché spazi così ampi vanno curati fino alla lampada in una stanza, ogni piccola luce in ogni fotogramma. E quelli sono aspetti che vengono realizzati per lo più prima, perché molto complessi. Poi c’è l’illuminazione di ogni singola scena. E qui bisogna essere bravi a restituire il mood dei personaggi, ma anche la volontà e i desideri del regista e il lavoro del direttore della fotografia. Diventa in tutti i sensi un lavoro di squadra, di ascolto e di confronto continuo.
Questo film ci ha dato la possibilità di spingere più in là l’asticella della difficoltà: abbiamo migliorato la luce che si riflette sui peli degli animali, per esempio, e il modo in cui sfuma sui loro volti in movimento. C’è stato un lavoro così minuzioso da permetterci di rappresentare le emozioni che i personaggi stanno vivendo in quel momento”.
Un film ricco di emozioni, dunque?
“Esatto, il film è pieno di sentimenti, di passione intesa come un ventaglio enorme di emozioni diverse, complice una profondità di scrittura molto ampia. Il film è molto più maturo e quindi avevamo la necessità di rappresentare qualcosa in più dei personaggi”.

Simone Iannuzzi e la bellezza di scrivere con la luce
Per quanto riguarda il suo lavoro, che ha a che fare con lo “scrivere con la luce”: com’è stato il confronto con i registi (qui l’intervista ai registi del film)? E come la luce può assumere un ruolo artistico, creativo, narrativo?
“Per fare questo mestiere bisogna sempre avere ben chiare le linee guida del film: sapere in quale direzione sta viaggiando il racconto. E quindi ascoltare la visione del regista e dell’art director. Se non conosci questi elementi, non potrai mai interpretare la storia con il tuo lavoro, né offrire il tuo tocco personale e creativo al progetto.
Una volta che hai capito come devono essere i personaggi, chi sono, cosa li muove, allora inizi a costruire una narrazione. Lavori con le luci, illumini i personaggi e gli oggetti in un certo modo, e l’immagine inizia a prendere forma. Il nostro reparto, quello di lighting, deve innanzitutto semplificare: capire la visione del regista e poi aggiungere piccoli mattoncini uno alla volta. E ognuno di questi mattoncini sono le emozioni che i personaggi devono vivere in quel momento. Per esempio, gli occhi devono sempre cadere dove il regista ti ha indicato: ed è una bella sfida creativa”.
Il cinema è un’arte collettiva, e lo si vede specialmente in film così complessi dal punto di vista tecnico come Zootropolis. Che tipo di lavoro c’è stato e quale dialogo avete instaurato?
“Il cinema è fondamentale in questo senso, non solo per ciò che comunichi ma per come lavori. Il nostro metodo è molto orizzontale: cerchiamo costantemente il feedback degli altri colleghi, ci confrontiamo continuamente. A ogni livello c’è proprio uno sforzo di umiltà e di ascolto.
Poi è chiaro che esistono delle gerarchie, ma la parte fondamentale è quella in cui si lavora insieme per un fine comune. È davvero un’arte collettiva, intesa come un “noi” che comprende tutti i reparti coinvolti.
Ed è questa comunicazione costante che permette di avere una visione d’insieme. Quando poi guardi una scena e il risultato finale, ti fermi un attimo e pensi: “Ok, ora ho capito qual era la direzione giusta da seguire”. Il cinema è tutto qui”.