Zachary Wigon su Sanctuary: “volevo portare gli spettatori sulle montagne russe”

Il nostro incontro con Zachary Wigon, regista di Sanctuary, in concorso alla 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma.

Sanctuary è la nuova pellicola diretta da Zachary Wigon, ex critico cinematografico che ha debuttato alla regia sul grande schermo nel 2014, con The Heart Machine, proiettato in anteprima al SXSW (South by Southwest) e distribuito in giro per il mondo in diversi Festival internazionali, mentre in Italia non è mai arrivato. Quest’altro lungometraggio, con la produzione terminata a settembre 2021, è stato presentato inizialmente il 12 settembre 2022 al Toronto International Film Festival, per poi approdare in concorso alla Festa del Cinema di Roma 2022, in particolare nella sezione Progressive Cinema. Durante l’evento abbiamo avuto la possibilità di incontrare faccia a faccia in una conferenza ristretta Wigon, che ci ha parlato di Sanctuary, descrivendo in particolare le sue ispirazioni, l’idea dietro al progetto, il segreto dietro il nome del film e le interessanti dinamiche psicologiche tra i due personaggi protagonisti, Hal (Christopher Abbott) e Rebecca (Margaret Qualley), al centro di un particolare gioco sessuale che diventa sempre più intrigante e misterioso. Vi ricordiamo che la realizzazione arriva nelle sale italiane il 17 novembre 2022, grazie a I Wonder Pictures.

Sanctuary: la finzione che va oltre la simulazione della realtà

Sanctuary - Cinematographe

Fin da subito è stato chiesto al regista come aveva gestito vari elementi di Sanctuary, dal gioco di ruolo al gioco di potere fino ad arrivare al gioco della recitazione. “C’era un’idea iniziale, quando abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura che era relativa al fatto che a volte riusciamo ad accedere ad una versione più vera di noi stessi attraverso la fantasia e il gioco di ruolo piuttosto che nella vita reale. C’è una cosa che mi è rimasta particolarmente impressa che diceva David Bowie che raccontava quando spiegava come era nato il personaggio di Ziggy Stardust ovvero che lui era in grado di essere più sé stesso, più David Bowie, quando interpretava questo alter ego che nella sua vita reale. Non sta a me spiegare il concetto cardine dietro il film, ma posso dire che c’è un grosso parallelismo tra la scrittura di una sceneggiatura in un gioco di ruolo e due persone che si chiudono in una stanza e recitano una parte. Questo per me è il rapporto tra la recitazione e il gioco di ruolo.”

Di seguito, è stato chiesto a Zachary Wigon se c’era la possibilità di sradicare il giudizio morale dalle azioni dei due protagonisti. “Devo dire che per me il concetto di giudizio morale è rimasto fuori dal mio progetto perché quello che mi interessava era effettivamente mostrare queste due persone che mettono in atto dei desideri che in realtà erano desideri veri e rivelavano anche dei lati psicologici dei due personaggi.”

Abbiamo chiesto al cineasta come ha costruito i protagonisti e se la scelta di Margaret Qualley e Christopher Abbott fosse già quella iniziale, considerando l’ottimo risultato finale. “I personaggi li abbiamo creati attraverso una serie di conversazioni che ho tenuto con lo sceneggiatore di Sanctuary, nel senso che ci siamo chiesti che tipo di personaggio sarebbe stata Rebecca, che tipo di personaggio sarebbe stato Hal e quale sarebbe stato il rapporto tra i due. Da quelle conversazioni, abbiamo buttato giù la sceneggiatura, concentrandoci sul rapporto tra i personaggi. Una volta finito lo script, abbiamo proposto le due parti a Margaret e Chris e fortunatamente loro hanno accettato.”

Sanctuary: la fascinazione delle ispirazioni

Sanctuary - Cinematographe

È stato fatto notare all’autore che effettivamente ci sono delle somiglianze tra Sanctuary e Pretty Woman anche se ovviamente c’è uno stravolgimento del concetto di Principe azzurro. Da questo punto di vista, il regista ha commentato: “La prima cosa da dire è che ho visto Pretty Woman una volta sola, quando ero ragazzino e non me lo ricordo così bene. Però c’è una cosa che mi sento di dire: io prima di fare il regista ho fatto il critico cinematografico e ritengo che sia molto interessante il fatto che chiunque può fare, a seconda dei film che conosce meglio, delle connessioni, dei collegamenti tra le pellicole e questo è un elemento molto affascinante del mondo cinematografico. Rispetto al confronto con Cenerentola non ci ho mai pensato realmente, ma la mia idea, soprattutto nel finale del film, la vedevo come un modo per tirare insieme tutti i fili della storia, vedere cosa avevo in mano quindi la parte psicologica dei personaggi e quali sono le questioni materiali ovvero la società alberghiera. Il finale che ho creato si basa solamente su quello, in modo da chiudere tutto quello che era rimasto aperto.”

Sanctuary è un progetto fatto di anime differenti, per questo motivo è stato domandato al cineasta quali fossero le ispirazioni principali. “Domanda interessante, perché c’è effettivamente una cosa che per me era un’idea di base ovvero riprodurre la screwball comedy, le commedie alla Howard Haws come La ragazza del venerdì, quindi alle vecchie commedie. L’altro genere con il quale mi sono confrontato è il thriller sessuale-psicologico perché se voi ci pensate, nelle commedie di Hawks, noi badiamo alla commedia, ma i personaggi si trattano malissimo. Nei thriller psicologici ci sono invece dinamiche diverse e nello specifico mi piaceva l’idea di unire i due generi e quindi portare lo spettatore su una sorta di montagna russa dove cambiano costantemente i rapporti tra i due personaggi e ciò crea una tensione elevata nello spettatore.”

Sanctuary: un’ambientazione senza finestre

Sanctuary, recensione - Cinematographe.it

Un ruolo fondamentale, all’interno del lungometraggio, lo gioca l’ambientazione e l’unica location della pellicola, una suite di un albergo. Come è stato costruito il tutto? “Ci tengo a dire che ho sviluppato la storia, ma la sceneggiatura l’ha scritta il mio amico Micah Bloomberg. Dall’inizio per il set avevo quest’idea che dovesse essere un ambiente con poche finestre, non come sia qui da voi in Italia, ma negli Stati Uniti gli alberghi moderni hanno finestre ovunque, però se tu hai tanta apertura, perdi il senso di claustrofobia che io volevo dare. A parte il discorso delle finestre, l’altra idea che avevo molto chiara era che volevo ambientare il film in una sola suite di hotel e la cosa importante era il layout vero e proprio ovvero come era costruita questa suite perché era fondamentale fare spostare i personaggi da una parte all’altra della stanza. Se li lasci fermi in un punto per tutto il tempo, il film diventa noioso. Quindi era importante prima passare dalla zona pranzo, al soggiorno, alla cucina, poi camera, bagno e di nuovo soggiorno. Così da portare lo spettatore sempre in giro per questa suite. Volevo inoltre dei colori molto intensi, dei colori forti proprio perché per i personaggi è un luogo di alta intensità emotiva, di alta sensibilità, un luogo quasi tattile e questo si può rendere proprio grazie all’utilizzo di colori molto forti, con una saturazione elevata.”

Sanctuary: una maschilità liberatoria

Christopher Abbott - Cinematographe

Nella parte conclusiva della conferenza stampa, l’autore ha confermato che, all’interno del film, viene mostrato una particolare prospettiva della maschilità, oltre al fatto che è rimasto molto colpito da alcune reazioni al Toronto International Film Festival: “Quello che mostro nel film è sicuramente un atteggiamento liberatorio anche se non mi piace prendere una posizione fissa, anche perché immagino che così i critici possa dare la propria personale interpretazione al progetto perché sono sempre più vaste rispetto a quante ne ha pensate il regista. Quello che posso dire è che Hal parte con un enorme peso sulle spalle, con la società che si aspetta molto da lui. Piano piano, verso la fine del film, ovviamente il tutto si sposta verso i suoi desideri e ciò è ovviamente liberatorio. La cosa che mi ha sorpreso un po’ e che è stato molto bello vedere è che nel film c’è parecchio humor, ma ci sono anche battute molto sottili. Io mi aspettavo, quando abbiamo presentato Sanctuary a Toronto, che la gente cogliesse questo, invece, a quanto pare, è stata travolta così tanto dall’umorismo da ridere anche in circostanze non propriamente divertenti.”

Infine, Wigon ha spiegato il significato dietro il titolo: “Un santuario è un luogo in cui ci sente sicuri dalle pressioni esterne ed è proprio quello che accade ai due protagonisti chiusi nella stanza d’albergo.”

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