Wajib – Invito al matrimonio: intervista ad Annemarie Jacir e a Saleh Bakri

Wajib - Invito al matrimonio, film portato agli Oscar per rappresentare la Palestina, raccontato dalla regista Annemarie Jacir e dall'attore Saleh Bakri.

In Wajib – Invito al matrimonio Abu Shadi (Mohammed Bakri) è un uomo palestinese che di professione fa l’insegnante: ha cresciuto da solo i due figli dopo essere stato abbandonato dalla moglie ed è in procinto di vivere un giorno molto importante, quello del matrimonio di sua figlia Amal (Maria Zreik). Vista l’occasione, torna a Nazareth anche il figlio Shadi (Saleh Bakri), che vive ormai da tempo in Italia. Nonostante ormai non sia più abituato alle tradizioni locali, Shadi comunque decide di rispettare la tradizione del wajib, ovvero la consuetudine di portare di persona le partecipazioni di nozze agli invitati. Questo viaggio insieme al padre porterà alla luce diversi aspetti del loro rapporto e si vedrà come essi appaiono di fronte alla comunità e come, invece, appaiono quando sono da soli. Wajib, diretto da Annemarie Jacir, è un film che mette in scena un contrasto generazionale in una cornice così particolare e conflittuale come quella della Palestina. Presentato agli Oscar per rappresentare il suo Paese, è un film dagli innumerevoli spunti di riflessione.

Noi abbiamo avuto l’occasione di intervistare la regista Annemarie Jacir e l’attore Saleh Bakri!

Wajib - Invito al Matrimonio cinematographe

Annemarie, secondo te quanto è importante la tradizione per mantenere i costumi e quanto è importante invece l’innovazione, soprattutto nel Cinema?

“Penso che faccia parte delle contraddizioni della vita moderna e fa parte anche delle mie contraddizioni: io cerco di essere progressista, di allontanarmi dalle tradizioni ma, allo stesso tempo, le tradizioni mi piacciono, da un punto di vista anche sociale. Diciamo che cerco di allontanarmene ma, al tempo stesso, di mantenerle. Per quanto riguarda Wajib, c’è proprio un’epoca di social media, di e-mail, di distanza tra le persone e questa tradizione è esattamente l’opposto: devi andare di persona a invitare qualcuno perché è una cosa molto importante, devi poterle incontrare. Ed è importante anche dover andare di persona a invitare anche qualcuno che non ti piace, perché tu e quella persona fate parte della stessa comunità. Quindi puoi dire che è una cosa ipocrita o puoi dire che l’interazione umana ti supporta a superare le differenze.”

Qual è stata la tua reazione nel vedere l’ottima accoglienza del film, che ha rappresentato la Palestina agli Oscar?

“Sì, sono stata molto contenta quando è stato scelto dal Comitato Palestinese per rappresentare la Palestina agli Oscar. Gli Oscar, personalmente, non è che siano poi così importanti, ma diciamo che è soltanto nell’ultimo decennio che c’è stata una possibilità di portare un film palestinese agli Oscar e quindi vuol dire che il cinema palestinese è più presente a livello internazionale e questo dà al nostro mondo maggiore esposizione, maggiore visibilità.”

Lo scontro/incontro, quindi il conflitto generazionale, nel film è accentuato dalla location, che è la Palestina, una terra di conflitti che ha costretto il figlio ad andare all’estero. Come questo conflitto potrebbe essere efficace anche in un altro contesto e come la Palestina svolge il ruolo di terza protagonista della storia?

“Penso che sia estremamente specifica la situazione, nel senso che riguarda Palestinesi che vivono in Israele e portano con loro le idee, le identità e anche quello che possono dire e non possono dire. Naturalmente, la situazione sarebbe diversa per i Palestinesi che vivono a Gerusalemme. Poi il personaggio di Abu Shadi è emblematico: lui è professore, insegnante in una scuola Palestinese in Israele e ci sono delle persone che stanno lì, israeliani, soltanto per spiare, per controllare quello che dice e riferirlo poi al Ministero dell’Istruzione Israeliano. Il Ministero vuole sapere che cosa viene detto in classe e ci sono cose che non possono essere dette e quindi è chiaro che è molto specifico del contesto. Ma ho visto durante le proiezioni e durante i passaggi del film che, anche persone che poco conoscevano la situazione esatta che vivono i due personaggi, potevano in ogni caso percepire e vivere a fondo il rapporto padre/figlio, avendo una risonanza anche più universale.”

Saleh, Wajib è un film che parla anche di tradizione: qual è il tuo rapporto con la tradizione, quale quello col progresso e come, secondo te, questi due aspetti possono convivere?

“La tradizione penso che sia una bella cosa, è qualcosa che abbiamo ereditato da tutto un lungo percorso fatto di esperienza umana e quindi non trovo bello arrivare e dire “Ah, questa tradizione è stupida, questa tradizione non serve a niente, è meglio disfarsene”. Chi sono io per giudicare la storia e l’esperienza passata? Questo non è progresso, questa sarebbe ignoranza. Per me il progresso vuol dire essere illuminati dalla tradizione, progresso è fare arte ed essere ispirato nel farlo dalle tradizioni, dalla narrazione, dal raccontare le storie e da tutte le cose che hai ereditato dall’esperienza umana.”

Visto che hai recitato col tuo vero padre, quali consigli vi ha dato la regista per rapportavi al meglio sul set?

“In questo caso la regista Annemarie Jacir non dà consigli, fa piuttosto delle domande, discute con gli artisti che lavorano con lei. Mai, mai darebbe dei consigli, piuttosto può magari esprimere la sua opinione, dirlo in modo aperto, però non ha tendenze dittatoriali. Se avverte e sente che sta tirando fuori un aspetto dittatoriale, lei subito lo reprime. Ti posso assicurare che non è una dittatrice.”

C’è un ricordo particolare o che ti è rimasto più impresso delle riprese con tuo padre?

“Beh, ti racconto una storia divertente. Mio padre aveva avuto grosse difficoltà nella parte in cui doveva andare a trovare il personaggio dell’israeliano, perché proprio quella parte del suo personaggio che fa affidamento sugli israeliani per andare avanti, per mantenere il posto di lavoro, per essere promosso, diciamo che per lui era proprio difficile perché lui è esattamente l’opposto. Quindi era molto molto difficile girare quella scena e credo che l’abbia fatta in modo supremo, ha fatto un’opera d’arte in quella scena. Comunque la notte prima quella scena, anche se non mi aveva detto niente, a quanto pare si era ubriacato, aveva bevuto tantissimo. La mattina dopo, infatti, era ancora mezzo ubriaco e quindi doveva guidare la macchina e non ci riusciva! Quindi abbiamo dovuto aspettare lì che gli passasse, che tornasse sobrio prima di iniziare a girare. Per me è stato molto divertente vederlo in quello stato!”