The Informer: intervista video al regista Andrea Di Stefano

Sicuramente un’enorme occasione per Andrea Di Stefano questo The Informer, secondo film del regista romano cinque anno dopo Escobar: Paradise Lost, che gli aveva permesso di lavorare nientemeno che con Benicio del Toro nei panni del leggendario narcotrafficante degli anni 80.
Qui Di Stefano è stato chiamato a misurarsi con un crime movie che strizza l’occhio ai grandi classici degli anni 70, abitato da personaggi torbidi, mai ben definiti, che rifugge luoghi comuni e cliché del genere.
Il cast è di assoluto livello, con Joel Kinnaman, Clive Owen, Rosamund Pike, Ana de Armas, Common ed Eugene Lipinski, che si muove sulle corde di una sceneggiatura scritta dallo stesso Di Stefano, Matt Cook e Rowan Joffe, tratta dal romanzo Tre Sekunder di Börge Hellström e Anders Roslund.

The Informer: Andrea Di Stefano parla del film con Joel Kinnaman e Rosamund Pike nel cast

Cosa ti ha attratto di questo progetto?

“Ho ricevuto il copione, parlava del rapporto tra un informatore e un agente dell’FBI. Questo copione mi ha portato a richiamare dei collaboratori con cui avevo lavorato per Escobar, ex agenti della DEA, e le loro storie di questi rapporti di amicizia che si creano tra questi agenti, che hanno il compito di proteggere questi informatori, e questi criminali. Questo rapporto di stretta collaborazione mi ha interessato, sono partito da questo punto di riferimento e ho riscritto il copione che poi è diventato The Informer”.

The Informer è tratto dal romanzo “Tre Secondi” di Börge Hellström e Anders Roslund. Quali sono gli aspetti positivi e quali invece le difficoltà, quando si lavora su una sceneggiatura partendo da un romanzo?

“Non ci sono aspetti negativi, solo aspetti positivi. Perché hai comunque punti di riferimento sugli snodi narrativi, i personaggi, puoi prenderle o cercare qualcosa di diverso, migliorare le cose. Detto questo il romanzo era ambientato in Svezia, la nostra sceneggiatura per molti versi si è discostata molto dal libro perché ha portato tutto a New York”.

In molti aspetti ed elementi The Informer si collega ad una precisa cinematografia degli anni ’70, ad un certo modo di fare cinema. C’è ancora secondo te, nel cinema di oggi dominato dai cinecomic, dalla Marvel e DC, c’è spazio per queste storie? O sarà sempre più difficile? 

“Dipende sempre dalla qualità della sceneggiatura. Certo oggi c’è molto meno ascolto per un certo tipo di cinema, gran part dei film di genere sono stati assorbiti dalla serialità televisiva, però dipende sempre ripeto dalla qualità della sceneggiatura.
C’è sempre spazio per un buon film, per una buona idea…”

Il tuo primo film è stato Escobar: Paradise Lost. Vi è nel tuo cinema, nel tuo mondo, una visione in cui nessuno è innocente, c’è un chiaro e uno scuro che si alterna nei personaggi, una visione un pò meno idealistica forse delle cose?

“Si. A me quelli che sono buoni o santi non interessano. Dicono che tutti gli uomini hanno i loro sogni ed obiettivi e per realizzarli devono sporcarsi le mani. A me questa cosa piace.”

A livello di scrittura, durante la realizzazione di The Informer, quant’è stato modificato dei personaggi, della loro natura, composizione, durante l’iter? Sono rimasti uguali o vi sono stati cambiamenti? 

“Un film cambia sempre, è una materia viva, di quello che scrivi tu sei l’unico interlocutore, poi però c’è il film che giri, il film che monti e in quelle tre fasi, tutto può cambiare, può cambiare una musica in una sequenza che va a rivoluzionare un’emozione o uno snodo narrativo, tante cose possono influire su un film. Cambia moltissimo dal momento in cui l’hai pensato al momento in cui lo fai vedere al pubblico per la prima volta.”

Perché ancora oggi dopo tanti anni, il mondo della criminalità piace così tanto agli spettatori secondo te?

“Non lo so se il mondo della criminalità, però sicuramente affascinano situazioni in cui delle persone sono messe di fronte a scelte che possono in qualche modo determinarne la vita o la morte, e le successive dinamiche sono quelle che poi interessano davvero.
Penso che le storie sul mondo criminale ti permettono di raccontare questo tipo di realtà, di mostrare questa equazione narrativa. Riesco sopravvivere o no? Mi fanno fuori o no?”