Stefano Savona su Le mura di Bergamo: “non ho fatto firmare nemmeno una liberatoria”

Il regista de Le Mura di Bergamo, presentato alla Berlinale 73 e alla 18ma edizione del Sole Luna Doc Film Festival, ci svela dettagli e retroscena del documentario.

Un racconto senza filtri della pandemia di Covid in Italia e in particolare nel suo epicentro, Bergamo, un documentario di forte impatto, a tratti insostenibile. Le mura di Bergamo, documentario diretto da Stefano Savona (La strada dei Samouni, Tahrir) è la cronaca puntuale dei giorni “caldi” della diffusione del virus che ha cambiato per sempre le nostre vite. Le riprese sono iniziate proprio a marzo 2020 a Bergamo, il regista ha seguito negli ospedali sovraffollati medici, infermieri, volontari, operatori telefonici del 118. Le loro voci stanche, affrante ma lucide aprono il documentario che non risparmia colpi allo stomaco. Come quando ascoltiamo Daniela, che lavora al 118, spiegare con rassegnazione e dolore la “cernita” che è costretta a fare tra i malati, prendendosi la responsabilità di scegliere chi far ricoverare, di capire contando solo sulle sue capacità e sulla sua forza interiore chi ha più speranze di salvarsi e chi deve rassegnarsi a morire in casa senza più speranze. I pazienti intubati, immagini che spesso abbiamo visto anche nei telegiornali, ci raccontano gli ultimi attimi lontano dalla famiglia, tra sconosciuti nella loro stessa condizione, accolti e curati da medici e infermieri amorevoli, ma lacerati dentro da paura e stanchezza.

Abbiamo incontrato il regista Stefano Savona alla 18esima edizione del Sole Luna Doc Film Festival di Palermo dove ha presentato il suo documentario fuori concorso.

Stefano Savona, cinematographe.it

Vedendo il film si riaprono ferite ancora non rimarginate, viene da chiedersi se non è stato troppo presto raccontare questa tragedia…
La richiesta iniziale su questo documentario era quella di fare cronaca, ma noi abbiamo tenuto il punto e abbiamo detto che questa storia si poteva raccontare una volta finita, e quindi ci abbiamo messo tre anni, anche pagando un prezzo personale non indifferente, non volevo fare un instant movie perché questo film per me è una riflessione su quello che è successo, quello che stava succedendo lo vedevamo ogni giorno in televisione. Io ho cominciato a capire come montare il film quando si percepiva che questa cosa cominciavamo a lasciarcela alle spalle, il lavoro di montaggio, quello che ha strutturato il film, è avvenuto principalmente a partire dal 2021, dopo il secondo lockdown. Questo film è fatto per durare, tra un anno, 2 anni, 3, 4, ci saremo dimenticati di quello che è successo e quindi questo film sarà ancora più utile, più importante. Che poi è un po’ la scommessa di tutti i miei film precedenti, come Tahrir, un film sulla rivoluzione araba del 2011, non è che adesso sia meno forte di prima, rivedi il film e ti sembra di partecipare a una cosa in tempo reale, insomma questa è la forza del documentario. Il documentario non è una cronaca con pretese”.

Hai vissuto i momenti più drammatici della pandemia in maniera diversa rispetto a chi rimaneva a casa e non capiva bene cosa stava succedendo, tu che cosa pensavi in quei momenti, che idea ti eri fatto?
Pensavo ‘questa roba è talmente assurda che nessuno ci crederà se non viene mostrato quello che accade’. Io non ho fatto firmare nemmeno una liberatoria durante il periodo delle riprese, ho detto a tutti ‘io metto da parte questo materiale, voi avete la garanzia che non mi state firmando niente, quando sarà tutto finito ci rivedremo, rivedremo insieme il film e vedremo se per tutti questa storia che abbiamo raccontato, che abbiamo vissuto, ci sembra utile’. E tutti alla fine hanno accettato. La cosa bella è stata quando, per esempio, al Bergamo Film Meeting durante il dibattito dopo la proiezione molti hanno dichiarato di essere pronti a raccontare quello che gli è successo, non erano dei veri e propri dibattiti, ognuno si alzava e raccontava la sua storia, avevano la libertà di farlo, una cosa inedita per la comunità bergamasca che di solito è restia ad aprirsi”.

Stefano Savona, cinematographe.it

Tra i protagonisti del tuo documentario mi ha colpita molto la storia di Daniela, un’anestesista che doveva fare una cernita tra i malati, scegliere chi aveva speranza di salvarsi e chi no, era diventata la sua agghiacciante quotidianità …
Lei quando ha rivisto il film ha detto: ‘Mamma mia quanto ero dura’, ma cosa poteva fare? Lei ha rivendicato il fatto che faceva il suo lavoro, che farlo in maniera anche un po’ distaccata le permetteva di essere più oggettiva, ma scegliere tra chi vive e chi muore è una scelta che nessuno dovrebbe trovarsi a fare nella propria vita”.

Nella narrazione dell’emergenza hai anche inserito delle immagini di repertorio, perché questa scelta?
Provengono da un archivio bergamasco, nel documentario diventano una sorta di memoria della città. L’ho scoperto un po’ casualmente perché tra i miei amici di Bergamo c’era una ragazza che lavorava in questo archivio, abbiamo pensato che fosse necessario cercare un controcampo interiore a questi corpi inanimati. Parlando con chi era uscito dalla terapia intensiva ci spiegava che tu non sei cosciente ma contemporaneamente hai comunque dei ricordi, delle sensazioni, e tutto si mescola, e non capisci neanche dove sei. Quindi abbiamo immaginato dei frammenti di ricordi, che poi uscendo dalla terapia intensiva e da questo stato di coma diventano ricordi di una vita”.

Stefano Savona svela quale sarà il suo prossimo film

Stefano Savona, cinematographe.it

La pandemia ci ha insegnato anche quanto siamo frangibili, non che prima non lo sapessimo…
Teoricamente lo sapevamo, però ne siamo diventati ancora più consapevoli. Tutto il montaggio del film è stato un modo per capire come riuscire a raccontare questo senso di fragilità che ha unificato tutti”.

Adesso su cosa stai lavorando?
Adesso sto lavorando al film della mia amica Anna Negri su suo padre Toni Negri, la sto aiutando nella scrittura e ho fatto una parte delle riprese un mese fa a Venezia. È un ritratto intimo di suo papà, quindi con tutte le contraddizioni che vuol dire essere cresciuti con un rivoluzionario, prima nemico pubblico numero uno e poi filosofo. Poi sto lavorando a un mio progetto, la storia di una famiglia indiana, una storia vera. E poi ho due progetti che in realtà nascono qualche anno fa su degli archivi audiovisivi della memoria contadina in Sicilia, stiamo cercando finalmente di trovargli una casa, di fare delle installazioni in un paese siciliano, a Montedoro, in provincia di Caltanissetta, che si è detto disposto a diventare un grande museo diffuso della memoria contadina”.

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