Pierfrancesco Favino parla di Promises: faccio l’attore perché non mi basto

La nostra intervista all'attore protagonista di Promises, lungometraggio diretto da Amanda Sthers che è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma.

Promises è il nuovo il film diretto da Amanda Sthers (Madame, Holy Lands) che ha adattato sul grande schermo il suo omonimo romanzo, edito in Italia da Rizzoli con il nome Promesse. Il lungometraggio vede come protagonista l’attore italiano Pierfrancesco Favino (Il traditore, Padrenostro) che interpreta Alexander, un uomo tormentato dalle sue scelte di vita che tenta in tutti i modi di tornare indietro per compiere azioni differenti dal solito e trovare finalmente l’amore della sua vita.

Promises, che ha un cast composto anche da Jean Reno, Kelly Reilly, Deepak Verma, Kris Marshall, Cara Theobold e molti altri, è stato presentato in anteprima alla 16esima edizione della Festa del Cinema di Roma, evento cinematografico che si è tenuto nella Capitale dal 14 al 24 ottobre principalmente all’Auditorium Parco della Musica. Mentre il lungometraggio arriva nelle sale italiane il 18 novembre 2021, vi riportiamo la round table riservata alla stampa alla quale abbiamo avuto modo di partecipare con Pierfrancesco Favino e la regista Amanda Sthers.

Promises: l’importanza della fragilità

Promises

All’inizio della tavola rotonda, è stato chiesto a Pierfrancesco Favino quali film o serie lo avessero emozionato di recente. “Sono molto facile alla lacrima. Ho trovato bellissimo e commovente Another Round che ho visto l’altro anno e l’ho trovato un film pazzesco e ho avuto la fortuna di vedere È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino che mi ha emozionato moltissimo.”

Dopo, invece, ancorandosi a quello che abbiamo visto in Promises, è stato domandato all’attore se sentiva propri temi universali come l’accettazione, la presa di coscienza delle nostre fragilità e il mettere da parte l’orgoglio. Favino ha risposto: “Si, assolutamente. Il mestiere che faccio me lo richiede. Forse deriva dalla mia vita, deriva dal fatto che sono cresciuto in un ambiente molto femminile, non ho mai pensato che essere a contatto con le proprie emozioni fosse un sintomo di debolezza, non ho mai vissuto la maschilità come quella cosa dura che non si piega minimamente alle passioni ed emozioni, anzi. Credo che in questo momento siamo tutti molto fragili, siamo molto in contatto con le nostre paure. Ci hanno costretto a stare tantissimo con noi stessi e abbiamo scoperto fortunatamente quanto siamo fragili e quanto abbiamo bisogno degli altri, ma al tempo stesso ci siamo molto induriti. Io ho fatto la scelta di accettare questa fragilità, perché penso che in questo momento dobbiamo appunto scegliere tra l’accettare questa fragilità con tutte le conseguenze o contrapporci a questo. Non mi stupisce che intorno a noi ci siano tanti movimenti che per me sono emotivi e non prettamente sociali o politici. Penso che tutto il mondo sta vivendo un momento di grande connessione, ma venendo da un lungo periodo in cui quell’educazione emotiva sembra essere stata cancellata, non sappiamo da che parte prenderla. Credo che il cinema e le arti, che per tanto tempo sono state messe da parte come se fossero tempo libero, sono esattamente la guida più importante. Certamente questo film ha a che fare con questo, però personalmente mi sono sempre domandato che tipo di bambino è stato Buscetta o Craxi, io ho a che fare con gli esseri umani, non con quello che rappresentano. Il mio compito è quello di farti vedere come si comportano, non è quello di giudicarli e ognuna di quelle persone, per quanto abbia commesso degli atti indicibili, è un essere umano ed è quello che continua ad interessarmi.”

Il tempo e la narrativa

Promises

Sempre appellandosi a quello che vediamo in Promises, dove Pierfrancesco Favino interpreta un compratore di libri pregiati, è stato chiesto al divo qual è stato il libro che ha segnato la sua infanzia e qual è stato, invece, quello dei suoi 20 anni. “Io sono stato un lettore precoce. Io penso che nell’infanzia ci sono dei libri che ti colpiscono per dei vari motivi. Io più che nella lettura ero colpito da un’edizione della Divina Commedia illustrata da Dorè. Non la leggevo, ma le illustrazioni mi rimarranno sempre impresse. Mi ricorderò sempre il Conte Ugolino rappresentato in quel modo lì. Quei disegni avevano una grande attrattiva su di me. Avendo delle sorelle più grandi, avevo anche tanti fumetti a casa. Sono stato un avido lettore di fumetti e lo sono ancora, non lo rinnegherò mai. È una cultura meravigliosa. Verso i 19-20 anni ero più vicino al mondo della poesia e visto che volevo tirarmela un po’ con le donne ero un baudelairiano convinto.”

Altra grande tematica di Promises è il tempo in tutte le sue forme, ma quale tempo sta vivendo, in questo momento, Favino? “Il tempo innanzitutto è qualcosa che desidero, l’avere tempo in particolare. Ma non perché io ne senta la mancanza, ma perché sono abbastanza avido di cose da fare. In questo momento mi sembra che sia tutto molto istantaneo, ho la sensazione che le cose nascano e muoiano, come se nulla restasse veramente e questa cosa mi spaventa molto. Per quanto riguarda la mia carriera, è un tempo molto molto bello. L’errore più grande che potrei fare è cristallizzarmi nell’idea di aver fatto cose che sono andate bene e per quello non osare o tentare di avere solo garanzie. Non credo che sarebbe giusto. Dal punto di vista del mio lavoro, io vedo ancora margini di crescita che sono margini legati molto all’abbandono, al consentire alle cose di avvenire in una maniera più naturale. Affinché questo avvenga c’è bisogno però che ci siano sempre delle condizioni di lavoro di un certo tipo. Vorrei andare in questa direzione. Per fare un esempio vorrei usare l’immagine del pittore che con tre semplici segni fa capire una cosa: è quell’essenzialità non virtuosistica, ma di pienezza del gesto che mi piacerebbe riuscire a guadagnare, ma non so se sarò mai in grado di farlo.”

Pierfrancesco Favino e la libertà di essere artista

PromisesL’ultima domanda che è stata posta a Pierfrancesco Favino è se ha sviluppato, ad ora, una teoria sulla recitazione, tenendo in considerazione che gestisce una scuola di giovani attori e alla luce della sua carriera straordinaria, nella quale ha fatto suoi tantissimi personaggi. La sua risposta ha spaziato davvero molto, parlando infine anche del ruolo dell’artista all’interno del mondo. “Piano piano mi sto facendo un’idea, non penso che esista un metodo di fare l’attore. E soprattutto non penso che esista un modo di fare l’attore perché ognuno è una persona a sé, ci sono magari delle cose che funzionano di più con alcuni rispetto che ad altri, magari ad esempio qualche attore è particolarmente sensibile alle immagini e si usano delle associazioni libere per farlo funzionare. È sempre la sceneggiatura e il testo che ti suggeriscono queste cose. Nel caso di Promises, ad esempio, sicuramente ci sono tante cose che ho messo nel personaggio che appartengono a me. Sono andato a Londra a 11 anni, ho sempre vissuto con la passione per quel mondo lì. Tutte queste cose hanno nutrito il mio personaggio ovviamente lo stesso non lo avrei potuto fare con Buscetta o Craxi, con loro avevo altri materiali sui quali lavorare perché hanno vissuto ovviamente vite diverse. Io quello che provo a far insegnare (perché ci sono degli insegnanti di professione che riprendono la mia filosofia) non è un modo rigido e unico di lavorare, ma dare a loro degli strumenti per capire chi sono realmente, affinché li possano usare attraverso la tecnica che gli viene fornita così da far emergere la loro unicità, la loro specificità. E poi voglio che sappiano lavorare insieme. Un attore prima di diventare attore ha innanzitutto bisogno di tempo nel senso che non gli auguro di avere un successo prematuro. Il viso di un attore non si può sviluppare pienamente prima dei 35 per gli uomini e 25 per le donne, secondo me e quindi la loro specifica identità si forma solamente a partire da quegli anni lì. Quindi c’è bisogno di calma per far sì che questa cosa avvenga. In una scuola puoi far sì che quei ragazzi costruiscano il proprio gusto, ma soprattutto di fare in modo che non abbiano dei vizi, dei difetti tecnici. La tecnica e le scale sono necessarie per il pianoforte, ma non servono solo quelle per suonare. Il punto di arrivo è quando il pianoforte e il pianista sono una cosa sola e la sola cosa che suonano è la musica. Per arrivare a questo ci vuole tanto tempo ovviamente, non bisogna avere fretta. E soprattutto c’è bisogno di ruoli e registi. Ti sfido a trovare una grande interpretazione che non faccia parte di un grande film. La grande interpretazione in un grande film è cento volte più grande che un’interpretazione da sola. Noi siamo solo degli ingranaggi di una storia, non siamo la storia. Un personaggio è solo una parte di una vicenda e questa è la prima cosa che è difficile da imparare. Io divento un tutt’uno con i personaggi perché faccio miei i film dove recito, perché non posso fare a meno di abbracciarli fino in fondo. Per cui Alexander e Promises saranno sempre anche miei, ma non dal punto di vista autoriale, ma dal punto di vista affettivo. Io farei di tutto per salvare Alexander e allo stesso modo farei di tutto per salvare il Libanese. L’attore è l’avvocato penalista del personaggio che interpreta. Se si crea una distanza e ti fa vedere che “io non sono così” ma perché io dovrei vederlo? Io devo lasciar libero lo spettatore di farsi il suo film non di imporgli il mio. Per far sì che questo avvenga bisogna che l’attore maturi forse un po’ di stanchezza, non so come dire, che non abbia sempre la pallottola in canna. Il rapporto che si crea è tra spettatore e film non tra pubblico e attore e se tu intrudi in quel rapporto c’è qualcosa che non va.

Sono uno che si prepara, sono uno che fa domande e penso che sia giusto. Se io mi bastavo com’ero, ma perché dovevo fare l’attore? Che mi interessa a me andare sullo schermo e far vedere chi sono io? In questo faccio un gesto teatrale e lo rivendico. A me la spontaneità non mi interessa, mi interessa la creazione, la creazione artistica che può confondersi con la verità. La verità fine a sé stessa mi interessa fino ad un certo punto. Mi interessa la libertà espressiva e creativa del cinema quando si fa arte. Cosa succede però con i personaggi storici? Anche fossi stato il più identico possibile a Craxi, non sarò mai Craxi. È un patto non scritto tra te e me: tu sai che dietro Craxi c’è Favino. Passato il momento in cui ti accorgi che sono uguale a quel personaggio o ti rompi le scatole oppure c’è qualcos’altro e quel qualcos’altro è l’umanità che comunque alberga anche in Craxi. E questo è veramente interessante. Io non capisco quando si vedono i film solo in quel modo, ricercando la verità storica. L’umanità alberga anche in Buscetta e dovremmo essere preoccupati se ritrovassimo effettivamente quel personaggio in nostro padre o noi come padri. Preoccupati da un lato e sollevati dal fatto che noi, essendo stati padri, non abbiamo preso quella strada lì ma io alle sue lacrime ci ho sempre creduto. Se io invece ti dico “guarda che io sono pulito, lo sto solo rappresentando” o peggio ancora ti dico: “hai visto come sono bravo” lì interromperei un rapporto sacro che è il rapporto tra lo spettatore e la storia. Per questo non riesco a capire quando insistiamo sul problema storico o politico quando abbiamo a che fare con personaggi reali. È comunque un’operazione plastica, è comunque una rappresentazione e io sono in particolar modo affascinato dalla rappresentazione artistica, proprio perché non è reale. È una libertà di essere tutto ciò che vuoi. Non si può pensare che l’opera di un’artista stia ai legami della verità storica o politica, giusta o sbagliata che sia. Perché l’artista ha la libertà, deve avere la sacrosanta libertà (e gli va riconosciuta) di immaginarsi che la realtà non vada come va. Di emozionarsi per questo. È come dire: “Shakespeare era razzista.” Credo su questo stiamo andando nella direzione della paura che dicevamo prima. Io penso che gli artisti devono essere liberi di essere quello che vogliono, è la libertà dell’artista e la società riconosce agli artisti la possibilità di immaginare che il mondo non sia come lo vediamo sennò che ci stiamo a fare? È un contratto collettivo tra chi ha quel dono e chi non ce l’ha.”

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