Il Sequestro Moro. Gli altri testimoni: intervista alla regista Mary Mirka Milo

In occasione della messa in onda su History – canale 407 di Sky – di Il sequestro Moro. Gli altri testimoni noi di Cinematographe.it abbiamo intervistato la regista Mary Mirka Milo, che ci ha raccontato i retroscena del suo ultimo documentario, in cui viene narrato ciò che è accaduto il 16 marzo 1978, quando Aldo Moro fu catturato dalle Brigate Rosse.

Come mai hai scelto di raccontare la storia del rapimento di Aldo Moro attraverso i quattro testimoni che il 16 marzo del ’78 hanno assistito al tragico evento?

La scelta del documentario è ricaduta proprio sul fatto di ricostruire questa vicenda del rapimento attraverso questi quattro testimoni, proprio perché sono dei testimoni che fino ad ora non hanno mai rilasciato un’intervista sull’argomento. Ricordiamo anche i nomi, sono Sergio Vincenzi, Ernesto Proietti, Lorenzo Vecchione e Francesco Pannofino. In realtà Francesco Pannofino ha parlato della sua presenza a Via Fani anche in una canzone che si intitola Sequestro di stato, però è stato anche sentito recentemente dalla commissione dell’inchiesta parlamentare. Ci sono quattro testimoni che si trovano inaspettatamente sul luogo di un agguato e che sono testimoni inconsapevoli, nel senso che sono persone che vivono nel quartiere. Quindi c’è chi, come Vincenzi, accompagna la figlia a scuola e c’è chi come Francesco Pannofino si prepara per andare all’università e quindi si trova a camminare a poca distanza proprio dal luogo dell’agguato, proprio per un caso, perché lui di solito prende il motorino. Quella volta è costretto a prendere l’autobus e a percorrere quel tratto per raggiungere la fermata di Via Trionfale. Quello che ho tentato di evidenziare – e che spero proprio che emerga nel documentario – è il tratto emotivo e umano del testimone che suo malgrado si trova a diventare protagonista di un evento che lo segnerà per sempre.

Da una parte c’è la ricostruzione della dinamica dell’agguato di Via Fani dal punto di vista tecnico, anche con un’intervista al dottor Federico Bossi, che è il direttore tecnico della polizia scientifica e che ci fornisce degli elementi di novità proprio rispetto alla ricostruzione dell’agguato. Ad esempio, fino ad ora si è sempre pensato che la macchina di Moro e quella della sua scorta fossero ferme al momento dell’agguato, invece adesso abbiamo la certezza che entrambe le macchine erano in movimento. Questa certezza pone anche in discussione tutta l’analisi dell’agguato che è durato in tutto dai 30 ai 40 secondi, quindi non c’è stato un tempo di reazione da parte della scorta, rispetto proprio ai componenti del comando brigatista che poi hanno dato ordine all’agguato. Per quanto riguarda il taglio che ho voluto dare io, una cosa che ho notato raccogliendo le interviste di questi quattro testimoni è stato proprio il sentimento della paura, presente non solo al momento dell’agguato, ma anche nei giorni e negli anni successivi in tutte e quattro le persone, in forma diversa.

Questo non è il tuo primo documentario (ricordiamo infatti Inferno – Mittelbau Dora – L’ultimo Lager o La Poesia Spezzata – Zuzanna Ginczanka): cosa provi quando – attraverso le tue pellicole – porti alla luce la verità, a volte anche scomoda?

Io spero di riuscire a portare la verità fuori. Il mio obiettivo in realtà è quello di raccontare un fatto e, spesso, non è semplice raccontare i fatti. Però alla fine abbiamo un supporto filmico, un supporto fotografico e tantissimi altri documenti – anche del tribunale, della commissione parlamentare d’inchiesta, la voce stessa dei testimoni, che ci aiutano a ricostruire quello che inizialmente era un fatto molto complesso. Però è un po’ come rimettere insieme i punti di un puzzle, che mano mano si compone e i contorni diventano sempre più definiti. Insomma, se riusciamo a raccontare i fatti dando voce ai testimoni nella maniera giusta, abbiamo fatto un ottimo lavoro. Poi lasceremo agli spettatori giudicare se siamo riusciti in questo nostro intento oppure no. Noi ci abbiamo provato.

Com’è stata la tua esperienza sul set, insieme ai testimoni?

Si sono sicuramente creati dei rapporti interpersonali anche molto intimi, perché una cosa che ho notato è che spesso i testimoni hanno avuto difficoltà a raccontare con dovizia di particolari questa loro esperienza, anche ai loro familiari. Quindi paradossalmente, durante l’intervista, si creano anche dei momenti in cui loro si “liberano” di questo nodo che hanno dentro e soprattutto per un fatto come quello di Via Fani, in cui c’è stata difficoltà anche a condividere l’esperienza con le persone più vicine, proprio perché è stato uno dei fatti più tragici della storia repubblicana italiana e che loro hanno vissuto direttamente e inconsapevolmente.

Qual è stato l’iter che hai intrapreso per la realizzazione del documentario?

Noi – dico noi perché poi ci sono altri autori del documentario che si chiamano Massimo Vincenzi, Michela Micocci e Valeria Castrucci – abbiamo avviato un lavoro di ricerca sui documenti, a livello di archivi di tribunali risalenti a un anno e mezzo fa. Da lì abbiamo seguito con molta attenzione anche quelli che erano gli sviluppi della polizia scientifica, quindi con risultanze anche tecniche che mano mano portavano avanti nuovi elementi. La commissione parlamentare di inchiesta ha chiuso il suo mandato proprio a dicembre del 2017, quindi una volta che sono stati raccolti i punti principali e le risultanze della commissione, ci siamo messi a lavoro con le idee molto chiare e abbiamo ricontattato i testimoni, che avevamo già sentito perché, appunto, si era creato un rapporto molto cordiale con tutti quanti. Con tutti abbiamo raccolto le interviste e abbiamo voluto dare questo taglio inusuale. L’ultima cosa che mi viene da dire è sicuramente che importante è stata anche la ricerca presso l’archivio dell’Istituto Luce, che ci ha fornito dei filmati che sono presenti nel documentario, che non sono inediti, ma sono rari. Sono immagini che non siamo abituati a vedere. È stato un lavoro faticoso, però siamo contenti del risultato.