Aquaman – intervista a Francesco De Francesco, la voce italiana di Jason Momoa

In occasione dell’uscita di Aquaman abbiamo incontrato il doppiatore italiano di Jason Momoa. Francesco De Francesco ci ha rivelato i retroscena del suo lavoro e il metodo seguito per doppiare il supereroe DC Comics.

Ha già incassato oltre 750 milioni di dollari in tutto il mondo (di cui 1,54 milioni di euro in apertura in Italia) il primo film sul Re di Atlantide Arthur Curry. Aquaman è in Italia da gennaio e per l’occasione abbiamo fatto due chiacchiere con la sua voce italiana Francesco De Francesco. Con una formazione che affonda le sue radici nel teatro e una significativa esperienza al leggio, per De Francesco Jason Momoa è la prima star protagonista di blockbuster a cui dà voce. Il doppiatore abruzzese non ha la corporatura imponente del suo attore né tratti da guerrafondaio come l’Aquaman dell’attore hawaiano, ma un viso più bonario.

Abbiamo incontrato De Francesco di sera, dopo l’ultimo turno di doppiaggio. Un po’ stanco e arruffato dalle fatiche al leggio, ma con la battuta pronta per alleggerire la conversazione, più quella scintilla d’imprevedibilità e passione infaticabile negli occhi che caratterizza ogni attore felice del suo mestiere. A volte traspare la modestia nel raccontarlo citando Pino Locchi, il grande doppiatore di Terence Hill, tra le figure del doppiaggio che lo hanno ispirato, ma poi è capace anche di una forte autoironia e larghe risate di soddisfazione nel parlare dei suoi personaggi del giorno.

Francesco De Francesco: il doppiatore italiano di Aquaman si racconta tra il fascino del personaggio DC e i suoi idoli

aquaman de francesco cinematographe.it

In Aquaman doppi un personaggio fuori dagli schemi. Cosa ti ha colpito di più in lui e quali sono state le difficoltà per interpretarlo?

“Di lui colpisce un doppio binario: il fatto di essere molto carismatici, ampi, con una voce molto ben posata sul diaframma, seria; dall’altra questa ironia di fondo. Il dualismo mi è stato suggerito dal direttore di doppiaggio Marco Mete. A proposito di questo continuava a dirmi: ‘Pensa a Pino Locchi, pensa a Terence Hill’. In effetti se ci pensi Terence Hill nei film è tutto sporco, sudato, ma è un bello con la battutina pronta e l’ironia tra le righe. Il mio è stato un tentativo, pallido, di restituire una dimensione di quel tipo ma attraverso Arthur, cioè Aquaman. Con le debite differenze, perché Pino Locchi è un gigante di questo mestiere. Abbiamo cercato la verità e la spontaneità nell’ultima scala delle mie ottave cercando d’incollare la mia voce su Jason Momoa e il suo personaggio.”

In doppiaggio capita anche di lavorare con l’animazione. Come cambia in questo caso il tuo lavoro, e cosa preferisci tra i personaggi animati e quelli in carne e ossa?

“Sono due mondi diversi, due stimoli diversi, cose divertentissime entrambe. Doppiare un bravo attore è stimolante perché spesso si può lavorare su cose sottili, su sfumature. Sulle animazioni prima no. Infatti ora non è più vero perché i doppiatori originali propongono sempre meno esagerazioni spinte e più espressioni credibili. Ovviamente dipende dal prodotto. Ultimamente ho interpretato un personaggio in Ralph Spacca Internet. L’interpretazione era abbastanza spinta, caricata. Si chiamava ‘Le so tutte’, è il motore di ricerca del film, una sorta di Google dal vivo. In casi come questo si può inventare qualcosa, non siamo pedissequamente bloccati su come un attore in originale poggia una frase. Quindi nella nostra versione possiamo essere più creativi.”

A teatro invece hai lavorato con Gabriele Vacis, ma ti sei formato con Jerzy Sthur. Come cambiano per un attore gli stimoli dal palcoscenico alla sala di doppiaggio?

“In sala hai solo uno spettatore, anzi tre. Sono molto competenti ed esigenti. Il direttore  di doppiaggio, l’assistente al doppiaggio e il fonico. Il primo è lì per giudicare indirizzandoti nella giusta direzione. C’è un errore che cerco sempre di non fare: considerare la sala come un luogo protetto. Per questo vivo il turno come fosse una performance. Non ci dev’essere la voce, devo esserci io, con la mia personalità, sensibilità e intelligenza. Tutto questo va imbrigliato nel personaggio che va interpretato. Quindi devi essere doppiamente concentrato. In sala l’unico cono di luce va da te al microfono, mentre i feedback passano per i tre professionisti che ti sono intorno, ma soprattutto nel direttore. In teatro invece quel feedback proviene dal pubblico. Lo si sente vibrare per tutto lo spettacolo nel buio della sala, è una sensazione che impari a utilizzare, a nutrirtene. E quando inizi a farne parte la succhi e se poi ci stai a distanza un po’ ti manca.”

Con l’avvento delle serie online c’è ancora più lavoro per un doppiatore, almeno così pare. Allo stesso tempo però il pubblico sta anche imparando a guardare con i sottotitoli. Secondo te quale sarà il futuro?

“Credo che probabilmente non sarà molto diverso dal nostro presente. Seguendo i dati Netflix su una serie come Stranger Things si evince che in Italia sia stata vista in italiano, quindi doppiata,dall’84% degli utenti. È un dato significativo su una serie di punta. Roma di Cùaron invece non è stato doppiato per mantenerne la fedeltà originale. Personalmente quando il doppiaggio è fatto bene sento in doppiato, e quando ho voglia di sentire l’origine di un suono, di un’emozione nella voce, sento l’originale. La possibilità di switchare per me è anche una grande possibilità, curiosità professionale.”

Quali sono le tue figure di riferimento nel doppiaggio?

“Non ce n’è una sola. Ed è pure difficile che te la dica, perché altri si offenderebbero. Seriamente, ci sono colleghi bravissimi che non nomino perché avrei l’imbarazzo della scelta. Ho dei punti di riferimento che lo sono per tantissimi, come alcuni grandi del passato. Ma più dei nomi ti dico quali sono le qualità che ammiro in un grande doppiatore: la capacità di mimetizzarsi, che vale anche per un attore. Nell’ultima decade di Joachin Phoenix vedo poche cose che si assomigliano e in lui sempre una fortissima intensità, una grande verità. Una vena di follia, forse anche di disagio, chissà. Una volta un regista mi disse che se non fossimo dei disagiati non faremmo questo lavoro. Tra i grandi doppiatori non posso non parlarti di Peppino Rinaldi. Lui ha doppiato Paul Newman, Peter Sellers, Jack Lemmon, Marlon Brando. Aveva quella capacità mimetica di giocare a non essere mai sé stesso. Il gioco sopraffino, elegante, preciso, di un bimbo cresciuto che con una iper specializzazione diventa tante cose fuori da sé, e una volontà ferrea ad essere qualcosa di lontano da sé stesso. Un grande atto d’intelligenza. Come lui ce ne sono tanti altri, come Pino Locchi, che faceva Sean Connery, Charles Bronson, Steve McQueen e Roger Moore.”

Ogni mattina un doppiatore si sveglia e sa che dovrà fare diversi personaggi. Tu oggi, quali personaggi hai fatto?

“Oggi ho fatto un personaggio ambiguo. Non mi hanno spiegato bene il carattere perché all’inizio sembrava un tipo moscio, ma da un certo punto in poi si scopre che ha ucciso la madre, quindi è un cattivo. Poi ho fatto un personaggio minore di puntata che viene prima sequestrato e poi ucciso.”

Quindi hai fatto sia l’assassino e che la vittima in un giorno solo.

“Esatto. Ma non è finita qui, perché nel terzo turno ho doppiato pure una nuvoletta che fa una specie di genio della lampada. Un personaggio molto divertente quanto faticoso perché parla in diversi modi. A volte con voce alta o gutturale, altre roca e gigantesca, poi rimpicciolita e stucchevole. Un personaggio da pazzi! Quindi splendido.”