Editoriale | Vittorio Gassman: racconto di un italiano cinico, loquace e attraente

Chi era davvero il grande Vittorio Gassman? Ripercorriamo la filmografia e la grandezza di uno degli attori più grandi del cinema italiano.

Il corpo. Attraverso di lui, sui di lui, per lui si raccontano storie, si mostrano vizi e virtù di un paese, di un popolo. Il corpo è una mappa geografica, è una concrezione di tutto ciò che si è; è rappresentazione fisica di cosa vive, sente, prova una Nazione, mostra Storia e Cultura. Durante la commedia italiana ci vengono mostrati vari corpi che in modo differente narrano, portano sul grande schermo piccole e grandi pagine italiane. Tra i mostri della commedia italiana si staglia con il suo fisico da ex giocatore di basket, Vittorio Gassman, nato a Genova il primo settembre 1922 e morto a Roma il 29 giugno 2000. Il 29 giugno 2020 sono vent’anni senza il gigante solitario, capace di essere guascone irriverente ma anche un uomo malinconico e struggente, intriso di calde lacrime.

Vittorio Gassman: un uomo che rappresenta vizi e virtù dell’italiano

Vittorio Gassman - Cinematographe.it

Se Sordi è stato capace di essere tutti noi, con le nostre virtù e i nostri vizi, Tognazzi ha incarnato il milanese cinico e irriverente, sempre pronto a rappresentare una storia di un’ironia spiazzante e cattiva (si pensi ai tanti ruoli nelle opere di Ferreri), Manfredi ha portato in scena l’uomo che cammina sempre con lo sguardo a terra, scusandosi quasi di esistere, Gassman è invece l’uomo medio con le manie di grandezza, quello che spera ma che non si impegna mai troppo, colui che si prende gioco del prossimo non per cattiveria ma perché vuole sopravvivere lui anche a costo di far soccombere l’altro. L’attore è poliedrico, declama Shakespeare ma gioca con ciò che è l’Italia e l’italiano, fa la televisione (si pensi a Il mattatore, prima programma tv, diventato poi uno dei suoi film più celebri in cui arte/mimesi e falsità si stringono in un doppio legaccio) per poi immergersi nella commedia propriamente detta. Gassman sa far parte di L’armata Brancaleone ma anche di C’eravamo tanto amati, è abitato da un’indole ironica e esagerata ma anche da una malinconia dolce e triste, è in grado di passare dal ghigno, figlio di chi deve andare avanti nonostante tutto, al pianto di chi vede ogni cosa crollare.

Gassman radiografa l’italiano, quello del dopoguerra spaventato, atterrito, che si è rialzato ma porta ancora con sé le ferite pur non volendole raccontare, si fa partecipe del dopoguerra e del boom economico grazie al suo talento vitale. L’occhio dei registi dilata quelle croste di realtà facendole diventare nei giganteschi che si fanno “tic nervosi”/narrativi nella filmografia dell’attore. Le bassezze e le fragilità tutte umane di chi vorrebbe essere dappertutto tranne che in guerra (La grande guerra), le paure di chi con la povertà e la fame dopo il conflitto ha dovuto convivere (I soliti ignoti), fare i conti, reinventandosi (Il mattatore), l’incapacità inetta di chi non sa stare al passo con i cambiamenti sociali (Il divorzio), diventano centro dei suoi personaggi, punto focale dei suoi tipi che sono gli uni parenti degli altri. Gassman mostra un sistema di valori chiaro, definito e su quello lavora: i suoi personaggi, in un modo o nell’altro, sbarcano il lunario, si inventano qualcosa anche a costo di andare a rubare, e arrivano ad accaparrarsi un niente, anche se si tratta di pasta e ceci.

Vittorio Gassman e i suoi film: un attore poliedrico

Vittorio Gassman - Cinematographe.it

Gassman può contare su un fisico atletico – all’inizio della sua carriera ha interpretato il ruolo del perfido criminale Walter in Riso amaro -, su una prestanza fisica dietro alla quale non si trincera ma con cui gioca: sa essere elegante tombeur de femmes grazie alla nobiltà classica della sua fisionomia, ma sa anche prendersi in giro, balbettando (il famoso “sssss-scientifico” di I soliti ignoti) e indossando orpelli somatici che gli cambiano i connotati (in I soliti ignoti orecchie allungate, fronte abbassata, naso ammorbidito), interpretando un cieco (nello struggente Profumo di donna) e dovendo imparare a vivere come se non vedesse.

L’attore interpreta chi con le donne ci sa fare, anche quando è cieco le riconosce, le capisce, le sa attrarre e ne conosce le forme e i segreti, anche quando è povero in canna e non avrebbe i mezzi per attirarle a sé, pensano gli amici, anche quando sta per divorziare e ha avventure sembra perdere il gusto della rinnovata libertà, non comprendendo al massimo la “modernità”.

Gassman è il cinico uomo di Il mattatore ma è anche attore dei film a episodi che danno un’istantanea dell’Italia dell’epoca: in I mostri (Risi, 1963) come in I nuovi mostri (Risi, Scola, Monicelli, 1977) mostra una nazione cinica, puerile, che cambia e che si nasconde, facendo emergere molti dei problemi che ancora oggi attanagliano il nostro paese.

Chiaramente nella vita e nell’immagine divistica di un attore anche il privato ha il suo peso, così, tentata la carriera all’estero, rendendosi conto presto che non faceva per lui, è stato etichettato come il “virile… vitale… Vittorio Gassman” nella pubblicità di Il muro di vetro (Maxwell Shane, 1953) e ancora, proprio per il suo rapporto con Shelley Winters, “(lei) lo ama! Lo amerai anche tu”. Negli ultimi anni cinquanta inizia una delle sue fasi più prolifiche: la commedia all’italiana in cui Gassman dà il meglio di sé al fianco di alcuni dei mostri proprio come lui, Tognazzi, Manfredi, Sordi, ed è lui solitamente ad essere l’incube, proprio per la sua fisicità e per il suo piglio deciso e autoritario nonostante non ne abbia sempre i mezzi. Per citarne solo uno, pensiamo al duetto con Manfredi in Il Gaucho (Risi, 1964) in cui i due portano sullo schermo i loro personaggi: da una parte il volitivo Gassman, sbruffone, sicuro, narratore di fandonie, dall’altra Manfredi insicuro, un passo indietro, sfuggente perché di dire la verità non ha proprio il coraggio. E anche quando la verità viene a galla mentre Gassman continua a dimostrarsi rappresentazione di un ambizioso ideale maschile che si prende gioco della sfortuna, Manfredi invece è un povero diavolo che proprio con il suo atteggiamento palesa la sua situazione economica disastrosa.

Vittorio Gassman: una canaglia cinica, loquace e attraente

Vittorio Gassman - Cinematographe.it

Leggi anche il nostro Editoriale su Alberto Sordi: genealogia di una maschera della comicità

Uno dei capolavori a cui ha partecipato Gassman è sicuramente La grande guerra (Monicelli, 1958) in cui “duetta” con Alberto Sordi. Due uomini che in modo diverso rappresentano molto dell’essere italiano e molto di tutti quei giovani e meno giovani che sono stati mandati al fronte non per scelta ma per forza: fucile in spalla e vita al fronte, a giocarsi tutto per una guerra che viene presentata nel film come una inutile e stupida carneficina. Ci sono Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e Giovanni Busacca, Gassman appunto, che incarna perfettamente un’ostinata e attiva resistenza agli ideali romantici dell’eroe, del maschio tutto d’un pezzo, di colui che in guerra ci vuole andare perché così è scritto. Per la patria si sacrifica perché in fin dei conti è difficile sradicare un modello sociale e culturale così forte, la pellicola però è in grado di far ridere amaramente della stupidità umana toccando da vicino le contraddizioni continue dell’esistenza: eroismo e viltà; vita e morte; umano e disumano. Fino alla fine Busacca tenta di salvare il salvabile, cercando di convincere i soldati austriaci di non essere a conoscenza della posizione degli italiani, e ancora una volta tenta di usare la sua loquacità e la sua innata capacità di persuasione ma fallisce. Un occhiolino e un mezzo sorriso verso Jacovacci mentre sta per essere fucilato mostrano quanto sia centrale nel sistema di valori che Gassman incarna questo mix tra serio e faceto, dolore e guasconeria, inattesa sincerità e spavalderia beffarda.

Vittorio Gassman: rappresentazione dell’uomo spavaldo, seducente e seduttivo

Vittorio Gassman - Cinematographe.it

Tale mix è proprio anche di un altro personaggio fondamentale per la sua carriera, il Bruno Cortona di Il sorpasso (1962) in cui Gassman mette tutto se stesso, la sua capacità teatrale di ammaliare, l’incontinenza verbale, l’amore per le donne e per le falsità. Bruno rappresenta l’uomo spavaldo, seducente e seduttivo in contrapposizione con il Roberto Mariani di Trintignant: se il primo è “laureato” alla scuola della strada, maestro del “carpe diem”, il secondo invece è posato, serio, non beve, non fuma, fa sempre sul serio con le ragazze – tanto che quella da lui amata non sa neppure della sua esistenza -, passa il ferragosto sui libri. Bruno è una maschera perfetta dell’uomo qualunque ma anche di chi sta vivendo il passaggio alla modernità non senza traumi pur tentando di domare “la bestia feroce”. I due sconosciuti del film si incontrano per caso e sullo sfondo c’è il boom economico; Bruno è l’aspirazione al successo e alla celebrità, tratti distintivi della vanità egoistica dell’uomo di ogni tempo, ma è insito in lui, e in Roberto, anche lo struggimento e la malinconia perché si rende conto che il fallimento è dietro l’angolo.

Il viaggio fatto con Roberto è presa e perdita di coscienza, e Bruno rappresenta un po’ Lucignolo che invita Pinocchio al paese dei balocchi ma anche Don Giovanni, pieno di complessità squisitamente umane, che il filosofo danese Kierkegaard aveva ben analizzato nel suo lavoro, Aut-Aut, che esplodono nello sguardo finale silenzioso e muto verso un futuro che non avrà modo di aprirsi.

Nel film In nome del popolo italiano (Risi, 1971) porta sulla scena un personaggio ai limiti dell’isteria, un cinico imprenditore che si scontra con uno dei suoi veri amici, Ugo Tognazzi, qui giudice istruttore. Gassman porta a galla l’ipocrisia di una mascolinità borghese tutta italiana con la sua lingua potente, l’attore afferma: “sono logorroico, parlare è la mia droga” e poi continua “più parole, più idee”. L’inclinazione alla recitazione esagerata, impostata, prestata dal teatro, sono gli elementi che fanno apprezzare Gassman al pubblico e alla critica ma l’attore ha saputo moderare l’eccesso performativo a favore della naturalezza meravigliosa che si può ammirare in Il sorpasso.

Vittorio Gassman: un’autorità carismatica

Vittorio Gassman - Cinematographe.it

Gassman interpreta traditori, uomini che fingono di essere chi non sono, dotati del dono di recitare a soggetto (in La cambiale, in Il mattatore), incapaci di prendersi le proprie responsabilità, bambini mai cresciuti, innamorati delle donne, ne odorano il profumo e le riconoscono; si crea tra i suoi personaggi una fitta rete di legami da cui si può desumere una sorta di parentela: Bruno dice a Roberto di sentire l’odore di femmina proprio come fa Fausto Consolo (Profumo di donna, Dino Risi, 1974), vaga come un pazzo con la sua macchina proprio come il protagonista di Il divorzio (Romolo Guerrieri, 1970) alla ricerca di qualcosa che non troverà mai. Spavaldo come solo lui sa essere, si presenta sicuro di sé al limite della follia, pronto a mentire e a mentire ancora per fare ciò che vuole (Il mattatore), per sopravvivere, capace di costruire una realtà parallela pur di non sembrare un perdente (Il sorpasso). L’attore interpreta l’uomo nuovo che dialoga con il suo lato più nascosto, che ride ma si fa scorgere, di notte, con le lacrime, che non è uscito indenne dalla guerra ed ora è fragile e sensibile anche se non ama farlo vedere. Gioca con sé stesso ma è anche capace, a tratti, di guardare con occhio sincero e analitico la realtà.

Gassman come tutte le stelle del cinema ha un’autorità carismatica – come scrivono nei loro saggi Jacqueline Reich e Catherine O’Rawe – che utilizza per narrare, diventando quasi una “merce”, con un sistema di valori, di segni. Ha una personalità ben definita che dialoga con ciò che sta intorno ad essa, con il paese che cambia, con la società che si evolve. Rappresenta una mascolinità omosociale che emerge ancora di più negli ultimi film perché spesso ricordano il passato e quindi la storia del suo paese: accanto a Manfredi e a Satta Flores in C’eravamo tanto amati ripercorre la storia d’Italia, prima è un partigiano e poi è uomo d’affari senza scrupoli, emblema di una nazione in crisi, come in crisi è la sinistra italiana; infatti dice:

La nostra generazione ha fatto schifo, il futuro è passato e non ce ne siamo accorti.

Stessa sorte capita al protagonista di La terrazza (Scola, 1980), in cui veste i panni di un politico che dà sfogo alla disillusione verso la sinistra, quella che lui stesso rappresenta (si definisce un “implacabile stronzo” e continua dicendo “non se ne può più… voi siete il mio specchio”).

Tags: Editoriali