Spike Lee: 5 parole chiave per capire i suoi film e la sua idea di cinema

Dal "double dolly shot" alla denuncia razziale: come Spike Lee ha rivoluzionato il cinema americano con un linguaggio visivo potente e militante.

Regista, sceneggiatore, produttore, attore e attivista, Spike Lee è una delle figure più influenti del cinema americano contemporaneo. Fin dai suoi esordi negli anni ’80, ha portato sullo schermo una visione forte e nuova dell’identità afroamericana, della lotta sociale e dell’ingiustizia sistemica.
Il suo cinema è riconoscibile sia visivamente che concettualmente: uno stile che mescola estetica pop, retorica militante e profonda consapevolezza storica. Scopriamo, in questo articolo, alcuni tratti distintivi del suo cinema, tra tecnica e tematiche.

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1. Sperimentazione visiva e contenuti formali nel cinema di Spike Lee

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Spike Lee è un autore che rifiuta la standardizzazione del linguaggio cinematografico. La sua regia è spesso un laboratorio visivo, dove tecniche, stili e formati si contaminano per restituire la complessità della realtà sociale e psicologica dei suoi personaggi. Ad esempio, in Bamboozled (2000), Lee adotta una precisa scelta tecnica e politica: alterna l’uso di miniDV (a bassa qualità visiva) per le scene del mondo reale con la pellicola 16mm per le parti più surreali. Questo contrasto visivo denuncia la spettacolarizzazione della cultura nera e del razzismo nei media, creando una frattura percettiva che interroga lo spettatore sul confine tra intrattenimento e propaganda. In Crooklyn (1994), utilizza una lente anamorfica distorta durante una parte ambientata nel Sud degli Stati Uniti. Il campo visivo alterato riflette lo smarrimento della protagonista bambina, trasmettendo un senso di alienazione attraverso il solo linguaggio dell’immagine, senza ricorrere a parole o spiegazioni. Un altro esempio notevole è Da Sweet Blood of Jesus (2014), un film sperimentale e controverso, remake indie dell’horror Ganja & Hess di Bill Gunn. Qui Lee fonde elementi di cinema underground, teatro afroamericano, videoclip e lirismo gotico, dando vita a un’opera ibrida e straniante che riflette sui desideri, i miti e i traumi della cultura nera americana. Nel misconosciuto Red Hook Summer (2012), un film volutamente grezzo e “di quartiere”, adotta uno stile semi-documentaristico, con camera a mano, luci naturali e dialoghi imperfetti. La forma lo-fi è parte integrante della poetica del film: una riflessione sul ritorno alle radici, sull’identità nera nel contesto post-gentrificazione e sulla spiritualità come campo di conflitto. Nel caso di Chi-Raq (2015), invece, Lee porta la contaminazione a livelli ancora più audaci: l’intero film è scritto in versi rimati, una scelta stilistica ispirata alla Lisistrata di Aristofane, mescolando teatro classico, musical, hip-hop e denuncia sociale. Questa operazione ibrida crea uno spazio espressivo inedito nel cinema contemporaneo, unendo tragedia greca, satira e attivismo. Anche nel recente Da 5 Bloods (2020), utilizza diversi formati visivi (1.33:1 per i flashback in pellicola 16mm, 2.39:1 per il presente in digitale), giocando con le proporzioni dello schermo per distinguere temporalità, evocare memoria e sottolineare l’esperienza discontinua della guerra e del trauma.

2. Il double dolly shot

Una delle cifre stilistiche più famose di Lee è il “double dolly shot”: macchina da presa e attore si muovono su due carrelli separati, creando un effetto fluttuante.
Usato in momenti di forte impatto emotivo o crisi interiore, questo effetto serve a disorientare lo spettatore, come avviene in Malcolm X (1992), in uno dei momenti chiave del film, dopo l’omicidio del protagonista o in La 25ª ora (2002), quando il protagonista viene ripreso con questa tecnica mentre esce dal bagno del club, dopo aver preso consapevolezza della sua “fine” imminente, destinato al carcere.
Quella del double dolly shot, per Spike Lee è una firma visiva che comunica instabilità, shock o rivelazione, presente anche in altri titoli come Clockers (1995), in Inside Man (2006) o BlackKklansman (2018).

3. Impegno sociale e politico

spike lee archer chad sanders

La filmografia di Spike Lee è pervasa da una coscienza politica attiva. Fin dal suo titolo di principale successo della prima parte di carriera, ovvero Fa’ la cosa giusta (1989), Spike Lee presta attenzione all’integrazione etnica ed alla vita dei quartieri di New York.
Film come BlacKkKlansman, Da 5 Bloods, Malcolm X e When the Levees Broke (documentario sulla tragedia dell’uragano Katrina) sono manifesti militanti contro razzismo, colonialismo e revisionismo, ma il cinema del regista newyorchese è disseminato di intenti sociali e politici.
Per Spike Lee, ogni film è una forma di lotta, contro i media, contro lo stato, contro la storia scritta dai vincitori.

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4. Titoli di testa come preludio

In molti film di Spike Lee, i titoli di testa sono già dichiarazione di poetica, atto politico e vibrazione emotiva. I titoli di Fa’ la cosa giusta si aprono con Rosie Perez che danza furiosamente su “Fight the Power” dei Public Enemy. La scena non ha una funzione narrativa diretta, ma prepara emotivamente lo spettatore alla tensione esplosiva che attraverserà l’intero film. Un altro esempio folgorante è quello dei titoli iniziali di Malcolm X. Il film si apre con la voce off dello stesso Malcolm X che pronuncia il suo discorso più acceso, mentre sullo sfondo scorrono le immagini del pestaggio di Rodney King. Mentre in La 25ª ora, i titoli scorrono su immagini ipnotiche e malinconiche dei fasci di luce che si levano dal Ground Zero, a pochi mesi dagli attentati dell’11 settembre.

5. Spike Lee e New York

Spike Lee è senza dubbio la voce cinematografica più autentica di Brooklyn e dell’esperienza afroamericana urbana. Il quartiere di Bedford-Stuyvesant (Bed-Stuy) è il cuore narrativo di molte sue opere, a partire da Fa’ la cosa giusta (1989), che è quasi interamente ambientato in un isolato del quartiere. In La 25ª ora (2002), Lee racconta una New York ferita, ancora sotto shock dopo l’11 settembre, e lo fa scegliendo luoghi reali e simbolici: il ponte di Brooklyn, il Tribeca, il bar sulle rive dell’Hudson. In Jungle Fever (1991), invece, Spike Lee mette in scena una storia d’amore interrazziale che si dipana tra la Brooklyn italoamericana e quella afroamericana di Harlem, rendendo lo scenario il cuore pulsante dei contrasti narrativi.

Spike Lee ha smosso il cinema americano non solo con la sua estetica, ma anche con il coraggio di raccontare la società, la città newyorchese e i conflitti razziali.
Attraverso uno stile inconfondibile, molti dei suoi film sono una dichiarazione d’intenti, un atto creativo e politico che invita lo spettatore a prendere posizione.

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