Sole cuore amore: la storia vera del film di Daniele Vicari
Nel personaggio di Isabella Ragonese, in Sole cuore amore, c'è la storia vera di Isabella Viola, mamma di 4 bambini, che viveva a Torvajanica.
Ai bambini viene insegnato che la vita è una filastrocca in cui tutto è perfetto, in cui ogni cosa è in rima con la parola precedente e con la successiva, o al massimo in rima alternata. Poi, basta arrivare all’adolescenza è già si capisce che le cose non vanno proprio come nelle filastrocche e men che meno come nelle favole, le vite sono più vicine a canzoni fatte da note stonate che a poemetti in musica; e questo si fa certezza quando si diventa adulti. Lo hanno capito benissimo Eli (Isabella Ragonese) e Vale (Eva Grieco), amiche da una vita, quasi sorelle; tutto si complica quando ci sono i figli, il matrimonio, il lavoro, le aspettative dei genitori. Lo sanno entrambe, lo sa Eli, sposata con Mario (Francesco Montanari), madre di quattro figli ma soprattutto lavoratrice perché i soldi non bastano, perché il marito è disoccupato, lo sa Vale, sola, senza marito e figli ma con un sogno poter vivere d’arte, è ballerina e performer ma deve ballare in discoteca per poter fare ciò che ama. Racconta questo Sole cuore amore (2016), il film di Daniele Vicari che mostra l’Italia e il lavoro, quanto sia difficile essere donne giovani e lavoratrici, insomma come sia difficile vivere.
Sole cuore amore: una storia di lavoro e di difficoltà
Sole cuore amore parla di lavoro, delle difficoltà che un lavoratore vive giorno dopo giorno, delle ingiustizie che subisce, delle scelte irrazionali che spesso purtroppo è costretto a prendere. Eli si sveglia ogni mattina, prestissimo, prende la metropolitana, e dopo due ore arriva nel bar, a Roma, dove fa la cameriera; questo lavoro è mal pagato ma è l’unico lavoro che ha, è stancante, la impegna sette giorni su sette, ma è l’unico straccio di occupazione che dà reddito alla famiglia. Torna a casa Eli e trova i figli svegli ma quasi pronti ad andare a dormire, il letto suo e di Mario è un divano su cui lui la bacia, la spoglia vorrebbe fare l’amore con lei ma è talmente distrutta che si addormenta. Non c’è tempo per essere felici, per essere innamorati, per fare sesso, per esserci. Eli è forte, tenace, divertente, porta sulle spalle il disagio del vivere con il sorriso – e questo sembra stridere con la storia di tutte le Eli del mondo -, e Mario, un uomo come tanti, si sente un fallito perché vede la moglie, la donna che ama, la madre dei suoi figli, correre come una trottola. Capita loro di litigare, per il portafoglio vuoto, per le corse sotto il cielo di una Roma bella ma crudelmente pericolosa che sfianca i propri figli, per il lavoro di lui che manca, per i “non ce la faccio” ma anche per i “devo”.
C’è poi anche Vale – una nota stonata nel film che mal si intreccia e si armonizza con la vicenda della protagonista – che si trucca e corre a ballare per la città, nelle discoteche, vive in un paese che non l’aiuta, che non l’agevola in quanto lavoratrice e in quanto donna, giovane e sognatrice. Vale sembra il negativo di Eli, non ha figli, potrebbe essere libera di essere e di fare ma non riesce a fare niente di tutto questo, perché non c’è sostegno per chi sogna, per chi sa fare, per chi non si allinea; il personaggio però è meno analizzato, meno scritto, il perno di tutto è il personaggio della Ragonese, semplice e bella nel suo cappotto rosso.
In Eli c’è la storia di Isabella Viola e di tutti quelli come lei
Vicari è da sempre interessato a chi è nelle retrovie, alle storie dei nostri vicini di casa, dei nostri amici e alle nostre; sono storie purtroppo normali, di persone silenti, quelle che si distruggono di fatica, che macinano chilometri in una vita in ombra che non fa loro sconti perché così è. Sole cuore amore racconta la scomoda e graffiante realtà senza melodramma e patetismo e tutto si concentra su Eli, l'”anonima” protagonista del film che, per il suo inesauribile senso del dovere, continua a dibattersi tra un impegno e l’altro, tra un incastro e l’altro e non ha il tempo di prendersi cura di sé, di fermarsi, di ascoltare quel cuore che inciampa e le chiede di fermarsi. Lei è tutte quelle donne che non sentono i fastidi, i problemi di salute perché si dicono “se non ci vado io ci va un’altra”, che si spremono fino alla fine. In lei ci sono tutte le madri che appena ricevono lo stipendio corrono a prendere un regalo ai propri figli anche se questo vorrà dire dover tirare la cinghia ancora di più.
Purtroppo quella di Eli è una storia vera, la storia di tutta quella gente che passa ore su bus e metro per andare a lavorare, che non vive ma sopravvive aspettando che il tempo cambi e diventi loro propizio – perché il tempo di sognare non c’è -, che solidarizza – Eli è disponibile con la collega extracomunitaria con il desiderio di laurearsi, come Vale aiuta l’amica con i figli -, che soffre ma che sa trovare anche il momento di parlare con il marito come quando erano fidanzati. Quella raccontata da Vicari è una Roma che muore lentamente. Quando il cuore di Elli comincia a “scricchiolare”, quando inizia ad avere giramenti di testa e a perdere il senso dell’orientamento va avanti, insiste, sente le parole del capo che la invita freddamente a decidere: “o così o niente”. Vorremmo stringerla forte e chiederle di non andare a lavorare, di ascoltare il medico, vorremmo dirle: “prenditi il tuo tempo, non andare in bar oggi”.
Eli è così, ha il senso del dovere di molte persone che conosciamo, mette davanti a tutto la famiglia, i figli, il marito. In lei c’è la storia tragica e triste di Isabella Viola, mamma di 4 bambini, che viveva a Torvajanica e lavorava in un bar al Tuscolano e che è morta alla stazione. Ogni giorno Isabella si faceva cinque ore di mezzi pubblici per portare a casa pochi euro, ogni giorno si metteva la corazza e partiva lasciando a casa i figli e il marito. Ad Eli capita la stessa sorte e Vicari sostiene di non aver tratto ispirazione da questo dramma struggente e duro ma di aver messo in scena la vita di molti.
“Dammi tre parole, sole cuore amore, dammi un bacio che non fa parlare”, così faceva la canzone che ha dato il titolo al film e così cantano i bambini che vanno a prendere la merenda nel bar dove lavora Eli ma per lei tutto sta per finire e non lo sa. Come era finito tutto per Isabella Viola. Quella domenica mattina aveva detto al marito “vado, sto attenta” e poi non è più tornata, Isabella che continuava a lottare per cinquantacinque euro al giorno – e purtroppo doveva ringraziare, aggrapparsi con le unghie e con i denti a quei pochi euro -, che pur non sentendosi bene andava avanti. Non la pagavano se stava a casa, non aveva rimborsi, non poteva usufruire della malattia perché non aveva contratto, sembra più una presa in giro grottesca che un lavoro, eppure questo aveva e se lo doveva far andare bene.
Se Eli sorride, si diverte, tenta di sopravvivere con quella forza vitale con cui Vicari forma e plasma i suoi personaggi, una scelta narrativa per molti stridente, Isabella Viola non sorrideva per niente, durante le ore interminabili si accucciava dietro il bancone quando aveva bisogno di un po’ di riposo per non farsi vedere dal capo.
Una morte che è dolorosa come una lama
Il personaggio di Eli in Sole cuore amore ci ricorda Isabella e tutte quelle lavoratrici e quei lavoratori che sono morti e che muoiono ancora di fatica – così titolavano i giornali -, racconta un popolo intero, una massa informe, ignota e ignorata, di cui spesso ci si riempie la bocca per parlare di spread, di Europa, della situazione economica, ma di cui, in realtà, si conosce poco o nulla, lo fanno i politici che usano le piccole vite di tanti come arma per fare campagna elettorale senza conoscerne i nomi e le giornate. Isabella non sapeva nulla di economia o di politica, non le interessavano la destra e la sinistra, non aveva tempo di interrogarsi su chi fosse meglio, conosceva solo una cosa: la sua vita era una lotta, doveva combattere per non soccombere, doveva lavorare altrimenti tutto sarebbe finito. Il crudele paradosso è stato che “a finire” è stata solo e soltanto lei, complemento oggetto di un verbo, “finire”, che di solito viene utilizzato per le cose inanimate, per descrivere azioni che si ripercuotono su una “materia molle” che non ha vita, non può reagire, non può ribellarsi. Isabella, nella finzione Eli, sono questo, cose usate, pezzi di macchina non necessari perché il loro posto potrebbe essere preso da qualunque altro “pezzo di ricambio”. Spettatori di tutto questo una Roma silente, una società indaffarata a vivere la propria vita, votata all’indifferenza perché così è più facile, un capo che messo al giogo i suoi buoi tirandoli fino allo stremo avendo in testa solo l’utile.
Sole cuore amore è un film – nonostante più di qualche problema nel suo interno – di cui c’è bisogno. C’è la necessità di sapere e conoscere i nomi di tutte quelle persone sconosciute, senza nome, che non vengono tutelate, aiutate dallo Stato e dalla politica, che usano i cittadini come meri meccanismi di un grande ingranaggio, che li usano come merce di scambio e non come “figli” da proteggere.